Un articolo di: Francesco Sidoti
Summit tra Aleksandar Vučić e Xi Jinping a Belgrado

Durante la guerra del Kosovo, nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1999 l’ambasciata cinese a Belgrado fu bruciata da bombe americane che uccisero tre persone, ferirono gravemente altre venti, e furono ritenute intenzionali, rivolte contro chi aveva contrastato apertamente quella guerra in tante sedi e in molti modi. Nel corso del suo recente viaggio in Europa, arrivando a Belgrado esattamente nel venticinquesimo anniversario di quel bombardamento, il presidente cinese lo ha ricordato con una lettera al giornale serbo Politika. Ha scritto Xi Jinping: “L’amicizia fra la Cina e la Serbia è stata forgiata con il sangue dei nostri compatrioti. Essi resteranno nella memoria condivisa dei nostri due popoli.

Quel bombardamento costituisce uno spartiacque, perché, unitamente ad altri “incidenti” (come, due anni dopo, la vicenda di un aereo spia sull’isola di Hainan) sembrò non soltanto un chiaro avvertimento sugli stretti limiti del rapporto totalmente subordinato della Cina con l’Occidente, ma una metodologia di rappresaglia che non aveva eguali nel trattamento riservato agli altri paesi occasionalmente dissenzienti rispetto alle direttive della Nato.

Le guerre e il razzismo

Si pensò che quegli “incidenti” denotassero uno specifico disprezzo della vita altrui, profondamente motivato dal razzismo. I precedenti non mancavano. A parte i frequenti linciaggi durante l’Ottocento, il Chinese Exclusion Act del 1882 era stato scritto proprio per tenere fuori i cinesi dai confini. Nel 1924, il Johnson-Reed Act (che fu valido per decenni) fissava quote e un tetto complessivo per l’immigrazione negli Stati Uniti, ma escludeva completamente i cinesi. Promulgata con l’esplicita motivazione della difesa da “un afflusso di sangue alieno”, la legge fu approvata con il pieno appoggio delle associazioni eugenetiche e del Ku Klux Klan. Cinesi e giapponesi erano accomunati nello stesso disprezzo.

Guerra e razzismo hanno mostrato più di una connessione. Il napalm è stato inventato come culmine della chimica di guerra occidentale, nell’Università di Harvard, nel 1942; fu adoperato in Italia e in Germania: i soldati tedeschi imprigionati furono le prime cavie nell’osservazione degli effetti. Sulle sue conseguenze, la celebre fotografa di guerra Lee Miller Penrose scattò foto che furono giudicate così spaventose da vietarne per decenni la pubblicazione; la risarcirono facendole pubblicare ampiamente e per prima l’orrore dei campi di concentramento nazisti a Buchenwald e a Dachau.

In Giappone il napalm fu usato senza risparmio. Dalla fine del 1944 migliaia di ordigni traboccanti di napalm calarono su 67 città giapponesi. L’ultimo bombardamento di questo tipo avvenne dopo Hiroshima. Nonostante la resa giapponese fosse stata notificata tramite il governo svizzero, Truman aveva deciso di usare comunque l’atomica, come mezzo di pressione su Stalin. Sulle ceneri delle città, l’imperatore Hirohito firmò nella notte del 9 agosto la resa incondizionata, che il 15 fu letta personalmente alla radio per togliere ogni dubbio.

Le conseguenze di un bombardamento con napalm in Giappone nel 1945 (foto d'epoca)

I bombardamenti americani del Giappone

Allora non si andava molto per il sottile; il maggiore orientalista americano, Edwin Reischauer, ha raccontato perché Kyoto fu salvata dalla bomba atomica: Henry L. Stimson, l’allora Ministro della Guerra, ci aveva fatto la luna di miele e gli era piaciuta.

Il più noto degli attacchi alle città giapponesi fu quello della notte del 9 marzo 1945, quando più di 300 bombardieri B-29 Superfortress decollarono avendo come obiettivo principale un quartiere di poche miglia quadrate, a Tokyo, Shitamachi, caratterizzato dalla forte densità abitativa di famiglie della classe operaia. Laddove i primi raid avevano preso di mira fabbriche e strutture militari, i bombardamenti successivi erano mirati principalmente ai civili. Erano le tradizionali case in legno e cartapesta, costruite in tal modo per resistere ad un eventuale terremoto devastante come quello del 1923; quel quartiere fu scelto proprio per questo: facile da bruciare, secondo Masahiko Yamabe. Il Giappone era ormai in ginocchio; i caccia nipponici non erano in grado di opporre resistenza. I bombardamenti furono sistematici, lunghi, indisturbati. Fu sganciata un’infinità di ordigni incendiari e a frammentazione. Un quinto di Tokyo diventò una grigliata fumante di corpi sciolti al calor bianco del napalm.

In un raid di tre ore, una tempesta di fuoco sterminò decine e decine di migliaia di persone. Il rogo degli incendi generò una luce abbagliante e visibile a decine di chilometri di distanza. All’alba del giorno dopo, le foto di Koyo Ishikawa hanno immortalato un’ecatombe di corpi carbonizzati – scheletri senza carne, come manichini anneriti e bruciacchiati, alcuni più grandi, altri più piccoli, stretti accanto. Nell’impossibilità di un qualunque riconoscimento, furono accatastati in enormi fosse comuni.

Nel 2012, in The Bomber Mafia, Malcolm Gladwell ha riascoltato gli aviatori di allora: hanno raccontato che c’era “un sentimento universale” tra le forze americane: gli asiatici erano “subumani” ovvero “scimmie gialle”. L’allora comandante in capo ammise: “Uccidere i giapponesi non mi dava molto fastidio…  Suppongo che, se avessi perso la guerra, sarei stato processato come criminale di guerra”.

Gli aviatori hanno raccontato che le correnti ascensionali riportavano in alto l’odore della carne che in basso si scioglieva e friggeva al calore del napalm. Al ritorno, quando i B-29 atterravano, squadre specializzate si impegnavano a fumigare gli aerei con solventi speciali – per disperdere l’odore rivoltante di carne fritta umana che era rimasto appiccicato sul metallo della fusoliera.

Un odore così intenso che salendo dalla terra fino al cielo aveva impregnato i veicoli sterminatori, resistendo agli spifferi del volo di ritorno verso la base.

Insomma, a Belgrado c’è a tutt’oggi odore di Occidente. Xi Jinping ne ha buona memoria – e non è il solo: c’è più di una tavola apparecchiata.

Sociologo

Francesco Sidoti