Un articolo di: Redazione

Cina caccia via le aziende occidentali dai mercati africani. L’anno scorso nei diversi Paesi del Continente nero le società cinesi hanno ottenuto i diritti del 31% di tutti i maggiori appalti superiori a 50 milioni di dollari.

Il recente colpo di Stato in Niger, uno dei maggiori fornitori di uranio nel mondo, ha messo sotto i riflettori la preoccupante dipendenza di molti Paesi occidentali dalla produzione africana di materie prime di cui è straordinariamente ricco il Continente nero.
L’annunciato stop all’export di uranio dal Niger verso la Francia – il Paese più “nuclearizzato” dell’Europa con i 56 reattori che generano il 63% di tutta l’energia elettrica – ha messo Parigi in stato di massimo allarme. Secondo i dati dell’agenzia OEC (Observatory of Economic Complexity) fino a poco tempo fa proprio il Niger “è stato il principale fornitore di uranio verso la Francia, mentre le importazioni, provenienti dall’Italia e dalla Russia, sono state dieci volte inferiori in termini di valore”.
In questa situazione l’opinione pubblica si interroga chi è che controlla in Africa le produzioni strategiche e le infrastrutture di importanza critica. Una risposta molto esplicita a questa domanda più che legittima non si è fatta attendere: il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, ha scritto che nei 10 anni passati la Cina “ha scavalcato” l’Occidente nella maggior parte dei progetti infrastrutturali africani.
“Nel 2022 nei diversi Paesi africani le società cinesi hanno ottenuto i diritti del 31% di tutti i maggiori appalti superiori a 50 milioni di dollari ciascuno”, ha scritto South China Morning Post, ricordando che “agli appaltatori cinesi sono bastati meno di 10 anni per spingere le aziende occidentali fuori dal mercato delle costruzioni infrastrutturali in Africa”.
Il quotidiano di Hong Kong cita i dati di una ricerca, condotta dalla fondazione Hinrich Foundation, secondo i quali “negli Anni 90 del secolo scorso 8 su 10 progetti di costruzione venivano appaltati alle aziende occidentali”. Nei primi 10 anni del 21° secolo la quota occidentale è diminuita gradualmente fino al 37% del mercato totale. Dopo il lancio nel 2013 dell’iniziativa globale cinese “Belt and Road Initiative” (in italiano più conosciuta con il nome di “Nuova Via della Seta”) il Dragone ha rapidamente conquistato il primato. Nel 2022 la partecipazione occidentale è scesa a meno del 12% del totale dei progetti infrastrutturali africani.
L’ambizioso progetto intercontinentale Belt and Road, è stato dettato da motivazioni economiche altrettanto che geopolitiche e militari per connettere l’Asia, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, dove attualmente all’iniziativa hanno aderito circa 40 Stati africani oltre che l’Unione africana come membro collettivo. “La connettività delle infrastrutture – ha dichiarato il presidente Xi Jinping – è il fondamento dello sviluppo attraverso la cooperazione”.
Secondo Keith M. Rockwell,  ricercatore capo presso Hinrich Foundation “nell’ambito dell’iniziativa Belt and Road la Cina ha già investito alcuni miliardi di dollari nella costruzione delle ferrovie in Kenya e in Etiopia, dei porti marittimi nella Repubblica del Djibouti e in Nigeria”.
La proiezione economica e finanziaria di Pechino in Africa si inserisce perfettamente in una cornice politica e militare: nel 2017 proprio in Djibouti, il Paese che gode una posizione strategica tra l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia e si affaccia sul Mar Rosso e sul Golfo di Aden, è stata aperta la prima base militare cinese.
In questo contesto i Paesi occidentali si stanno distanziando dall’iniziativa Belt and Road. Durante il vertice con il presidente, Joe Biden, a Washington il 27 luglio scorso, il premier italiano, Giorgia Meloni, ha ipotizzato “una prossima uscita dell’Italia dal memorandum d’intesa con la Cina sulla Nuova Via della Seta”. Da parte sua Biden ha detto che gli Stati Uniti sarebbero pronti a ricompensare l’Italia con vantaggi nel riallineamento delle supply chain.
Gli analisti notano che la strategia di espansione del Dragone in Africa si basa, più che sugli investimenti diretti esteri (IDE), sul finanziamento di progetti infrastrutturali (155 miliardi di dollari al 2022) e di attività che ne promuovano l’export. Infatti la Cina ha superato gli USA ed è diventata il primo partner commerciale dell’Africa: nel 2021 (l’ultimo dato disponibile) gli interscambi commerciali tra Pechino e i Paesi africani hanno superato i 250 miliardi di dollari, mentre il commercio degli Stati Uniti con l’Africa ha totalizzato appena i 62 miliardi.
I colossali finanziamenti cinesi hanno permesso a Pechino di aumentare la propria influenza sulle politiche dei Governi africani, che ora preferiscono gli appaltatori cinesi a quelli occidentali e russi.
Hanno fatto molto clamore negli Stati Uniti le notizie sul ruolo avuto dal figlio di Joe Biden, Hunter, nella transazione per la cessione delle miniere di rame-cobalto di Kisanfu e Tenke Fungurume nella Repubblica Democratica del Congo dalla statunitense Freeport-McMoRan alla cinese China Molybdenum. “Negli ultimi 20 anni la Cina è stata in grado di affermare il suo dominio sui minerali critici in Africa senza che gli USA adottassero la benché minima misura per ridurre la loro dipendenza da Pechino sull’approvvigionamento dei metalli strategici”, ha notato il Sole 24 Ore.
Un altro lato controverso dell’espansione di Pechino in Africa sarebbe stato legato alla cosiddetta “trappola del debito”. Secondo alcune fonti, a fronte dell’impossibilità di pagare i propri debiti, le clausole dei contratti proposti da Pechino ai partner africani “prevedevano l’obbligo di consegnare le infrastrutture pubbliche finanziate al controllo della Cina”.
Per evitare le critiche, ma soprattutto di fronte alle difficoltà finanziarie di molti Paesi africani, la Cina ha drasticamente ridotto l’erogazione dei prestiti, che è scesa dai 28,4 miliardi di dollari nel 2016, a soli 1,9 miliardi nel 2020. Nel 2022 rispetto alla media degli anni precedenti la concessione dei crediti nell’ambito dell’iniziativa Belt and Road è crollata del 55% per fermarsi a quota 7,5 miliardi di dollari.
Il sottosuolo del continente africano contiene gigantesche risorse dei minerali critici, molti dei quali sono indispensabili per la transizione energetica: il rame è necessario per le linee elettriche; cobalto, nichel, litio e grafite sono necessari per produrre batterie, mentre i platinoidi sono fondamentali per la produzione di idrogeno “verde”. Le società cinesi controllano le produzioni di litio in Zimbabwe e in Namibia, e quelle di cobalto in Congo e in Zambia. Attualmente la Cina domina il 58% del mercato globale della lavorazione di litio, metallo chiave per la produzione di batterie per le auto elettriche.
Ma le iniziative della Cina in Africa vanno molto oltre un semplice sfruttamento dei giacimenti e la produzione di materie prime. Il gigante dell’industria elettronica Huawei ha costruito larga parte della rete 4G del Continente nero e ora punta a fare lo stesso con l’Internet mobile di quinta generazione.
L’Occidente cerca di far fronte all’avanzata cinese. Il G7 ha lanciato un’iniziativa di rastrellare e di investire successivamente 600 miliardi di dollari nei maggiori progetti infrastrutturali dei Paesi in via di sviluppo. Rockwell ha detto di credere che “l’Africa sia il principale destinatario dei finanziamenti del G7”. Parallelamente l’Unione Europea ha varato un’iniziativa propria, battezzata Global Gateway, che in risposta alla Belt and Road cinese, dovrà garantire entro il 2027 un flusso di investimenti da 300 miliardi di euro verso le economie dei Paesi in via di sviluppo.

Giornalisti e Redattori di Pluralia

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