Il cambiamento climatico e il costo dei trasporti, le crisi geopolitiche, la qualità della vita e l’informazione. Ecco come sarà lo scenario economico del futuro e che cosa cambia per l'economia italiana
Il mercantilismo sembrava essere stato sconfitto dal liberalismo, ma forse non è così
Il commercio è da sempre una delle grandi forze che muove il mondo, e fornisce incentivi per il continuo miglioramento tramite l’innovazione. Accusata di avere ridotto il tenore di vita dei paesi ricchi a causa della concorrenza sleale delle aziende nei paesi poveri, la globalizzazione è la forza che ha consentito una bassa inflazione e la disponibilità di beni a basso prezzo. Il commercio internazionale è caratterizzato da costi e da benefici. Si comprano beni da un paese lontano perché è possibile trovare merci diverse da quelle prodotte localmente e/o perché si possono pagare di meno le stesse merci. Ma quanto accaduto negli ultimi decenni potrebbe non accadere più in un prossimo futuro: come cambierà la struttura del commercio mondiale nel nuovo mondo multipolare? Lo discuto facendo riferimento ad alcuni importanti trend di fondo, tra cui il costo del trasporto indotto dal cambiamento climatico, la domanda delle economie internazionali, i nuovi equilibri geopolitici, la qualità della vita e l’informazione, per poi derivare alcune implicazioni per l’Italia.
Il cambiamento climatico: sino a questo momento il costo di trasporto delle merci è stato tenuto artificialmente basso dall’assenza di un costo legato alle emissioni di gas-serra. Ancora oggi, l’atmosfera è ritenuta essere un contenitore globale in grado di accogliere tutte le emissioni di CO2, un esempio di “tragedia nell’uso delle risorse comuni” che conduce a sfruttamento eccessivo del bene comune, a vantaggi privati e costi pubblici. La relazione tra emissioni di gas-serra e livello medio della temperatura sta creando pressione a favore di politiche economiche e regolamentazioni che incorporino nel costo di trasporto, tramite tasse e/o acquisto di permessi di emissione, il valore dell’utilizzo della risorsa comune. Questo fattore dovrebbe portare a una riduzione del commercio internazionale.
Le necessità delle economie internazionali: un secolo fa tutte le economie del mondo erano alla ricerca di materie prime per creare altri beni, specie di tipo infrastrutturale. Oggi molte infrastrutture sono state costruite e sono ancora utilizzabili, e le economie più ricche si sono spostate verso il consumo di servizi, che hanno meno bisogno del commercio internazionale. Ma la gran parte della popolazione del pianeta risiede in aree che hanno ancora bisogno di infrastrutture e materie prime, e non è detto quindi che il commercio mondiale diminuisca in aggregato in misura rilevante. E tutti comunque hanno bisogno di energia e dell’importazione delle materie prime per crearla e sfruttarla.
I nuovi equilibri geopolitici: l’invasione russa in Ucraina ha creato uno scenario inedito, in cui il mondo ha votato a favore o contro la Russia. Non è però chiaro che il risultato finale sia stato sfavorevole all’aggressore. La situazione ha prodotto spinte verso la creazione di nuove aree di scambio mondiale, dove la domanda e l’offerta di beni non dipende solo dal prezzo e dalla qualità, ma tiene conto anche della provenienza geografica che può favorire o sfavorire l’incentivo all’acquisto da parte di consumatori e imprese ideologizzati. Il mercantilismo sembrava essere stato sconfitto dal liberalismo, ma forse non è così, e soprattutto non sarà così nel futuro, se le scelte di miliardi di consumatori fossero il prodotto di ideologie e non di una libera domanda, nella versione moderna della massima staliniana secondo cui “non conta chi vota, ma conta chi conta i voti”.
All’economia italiana servono incentivi per giocare ad armi pari con economie che impiegano risorse pubbliche
La qualità e l’informazione: la qualità è un bene di lusso. Nei paesi sviluppati siamo disposti a pagare di più per consumare beni di alta qualità. In Italia in particolare tendiamo a pensare che i beni di maggiore qualità siano quelli italiani, e preferiamo una catena di produzione corta piuttosto che lunga. Inoltre, in misura sempre maggiore i consumatori sono felici nell’appoggiare con la loro domanda lo sforzo produttivo delle comunità locali piuttosto che di produttori lontani. Si tratta di un atteggiamento che ha fondamenti economici: la fortuna di un produttore indiano o cinese non produce benefici per una Regione italiana, mentre la crescita di un’azienda italiana conferisce benefici locali e nazionali.
Le implicazioni per l’Italia: il nostro paese presenta una struttura produttiva molto sbilanciata verso le piccole aziende, che tendono spesso a lavorare in contesti locali di fornitura incrociata in maniera molto flessibile. Secondo alcuni commentatori, tale catena del valore corta ha contribuito alla resilienza dell’economia italiana in un periodo di elevati costi dell’energia e di frammentazione della catena del valore mondiale. Non possiamo però rimanere fermi, anche perché abbiamo molto da perdere dalla contrazione del commercio internazionale con i nostri 660 miliardi di euro di esportazioni e la nostra tradizionale carenza di materie prime. In molti paesi è in atto da qualche tempo uno sforzo definito di “re-shoring” consistente nel riportare entro i confini nazionali le produzioni, anche per tenere conto dei trend sopra elencati. Secondo International Finance questo potrà favorire economie come Messico, Singapore, Malesia e Vietnam. Le catene corte di approvvigionamento assicurano maggior qualità, costi più bassi, meno esposizione a crisi geopolitiche di tipo internazionale, maggior supporto alla comunità locale e quindi un maggior riconoscimento del valore prodotto. Per mantenere la nostra posizione dobbiamo quindi competere con altri paesi internazionali, sfruttando i nostri vantaggi. L’Italia resta un dei paesi più belli del mondo e non sarebbe quindi difficile attrarre imprese e talenti internazionali. Dobbiamo però avere pacchetti di incentivi che ci consentano di giocare ad armi pari con economie che non lesinano a impiegare risorse pubbliche per convincere le imprese a insediarsi nei vari paesi. I pacchetti di incentivo devono comprendere assistenza alla localizzazione, canali preferenziali per il reperimento di capitale umano, interazione con i grandi player pubblici e privati già insediati in Italia. Come 600 anni fa, la competizione si fa in primo luogo con i sistemi e con la collaborazione tra pubblico e privato invece che con la capacità delle singole aziende che si muovono in autonomia.