Un articolo di: Redazione

Hijab, burqa, abaya, velo integrale: nomi diversi dello stesso fenomeno, un motivo di tensioni sempre più forti tra il mondo musulmano e l’Occidente

Da una multa di un euro ora si passa alla reclusione. Giro di vite in Iran, dove il Parlamento ha varato una legge che introdurrà una pena molto severa – fino a 10 anni di carcere – per le donne che in pubblico oseranno non indossare il hijab, il velo islamico femminile.
A favore del progetto di legge, chiamato “Sul hijab e sulla castità”, hanno votato 152 deputati del Parlamento iraniano, solo 34 i contrari e sette gli astenuti. Ora, per entrare in vigore, il documento dovrà essere approvato dal “Consiglio dei Guardiani della Costituzione”, un organo costituito da teologi e da giuristi per la maggior parte ultraconservatori. Ci sono pochi dubbi riguardo al “sì” finale.
Come ha spiegato un rappresentante del Parlamento iraniano: “l’obiettivo fondamentale della nuova iniziativa dei legislatori è quello di rafforzare il controllo del rispetto del codice di abbigliamento islamico da parte delle donne iraniane”. Attualmente per “l’aspetto inappropriato” le donne possono essere fermate dalla polizia, possono essere multate (da 0,1 a 10 euro) o soggette ad altre forme di “punizioni correttive”.
Quando la nuova legge entrerà in vigore – è stato previsto un periodo di “prova” di tre anni – le multe saliranno a 4.000-8.000 euro per le donne che “semplicemente” non portano il velo, e fino a 10 anni di prigione per quelle che non rispetteranno la regola “in forma organizzata e che incoraggiano altre a seguirne l’esempio”. Sono previste punizioni anche per i proprietari dei negozi che serviranno donne iraniane non rispettose del “dress code” musulmano, nonché i proprietari delle automobili su cui viaggeranno donne “non coperte dal velo”.
La nuova legge è stata approvata sullo sfondo delle proteste di massa in Iran per l’anniversario della morte di Mahsa Amini. La ragazza 22enne iraniana è morta in circostanze ancora non chiarite il 16 settembre del 2002 dopo essere stata messa in custodia dalla polizia religiosa “per non aver indossato correttamente il velo”.
Il problema del codice di abbigliamento islamico è diventato un punto di forti tensioni tra le autorità dei Paesi europei e le rispettive comunità musulmane. La Francia ha vietato nelle scuole l’abaya, un indumento femminile che rappresenta un lungo camice nero, di tessuto leggero, che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Nel 2004 una legge del Governo francese aveva già messo al bando i simboli religiosi come il velo islamico, la kippah per gli ebrei o il crocifisso per i cristiani per “non contravvenire alla laicità della scuola pubblica francese”.
Anche in Svizzera è stato adottato un disegno di legge “anti-burqa”. Il 20 settembre scorso dopo il “sì” del Consiglio degli Stati, anche il Consiglio Nazionale ha approvato il divieto di “dissimulazione del volto” con 151 voti contro 29 e 6 astensioni. In Svizzera occhi, naso e bocca dovranno dunque essere visibili in tutti gli spazi pubblici o privati accessibili al pubblico. “Eccezioni sono previste per chi guida una moto, per motivi sanitari o nei luoghi di culto”, ha dichiarato il parlamentare svizzero Michaël Buffat. Secondo il disegno di legge, la violazione del divieto di dissimulare il viso sarà punita con una multa fino a 1.000 franchi (1.041,6 euro circa). Eccezioni sono previste per chi viaggia in aereo, per le sedi diplomatiche o i luoghi di culto.
E mentre Papa Francesco invita i popoli alla tolleranza, le notizie riguardo alle punizioni delle persone “non obedienti” nei Paesi musulmani di certo non mancano. L’ultimo esempio è stato raccontato dal sito italiano Il Post, secondo cui in Indonesia una giovane donna musulmana, Lina Lutfiawati, nota influencer con più di due milioni di follower su TikTok, “è stata condannata a due anni di carcere per aver pubblicato un video in cui dice ‘Bismillah’ – una frase che in arabo significa “in nome di Dio” – prima di mangiare pelle di maiale croccante”.
Lutfiawati ha cercato di spiegare di aver provato la carne di maiale, il cui consumo è severamente proibito dall’Islam, “per curiosità” mentre era in vacanza sull’isola turistica di Bali dove, a differenza del resto del Paese, la popolazione è a maggioranza indù. Il video è stato definito blasfemo dal Nahdlatul Ulama, il massimo organo clericale musulmano dell’Indonesia, dopodiché il tribunale distrettuale di Palembang, sull’isola di Sumatra, nell’ovest del Paese, ha accusato la Lutfiawati, nota su Tik Tok con il nome di Lina Mukherjee, di “diffusione di informazioni volte a incitare all’odio contro individui e gruppi religiosi”. Oltre alla carcerazione per due anni è stata anche condannata a pagare una multa di 250 milioni di rupie indonesiane (circa 15.000 euro), circa quattro volte il salario annuo pro capite in Indonesia.

Giornalisti e Redattori di Pluralia

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