Un articolo di: Riccardo Fallico

Ad oggi, solo le scelte politiche ed economiche degli Stati Uniti possono davvero promuovere la dedollarizzazione e spingere gli altri Paesi a sostituire i dollari accumulati più o meno rapidamente. Almeno nel breve termine, senza terremoti politici o economici e senza cambiamenti strutturali del sistema finanziario mondiale è difficile immaginare che il ruolo del dollaro possa davvero essere messo in discussione e men che meno che il suo utilizzo possa essere nullo.

La rapida diffusione e adozione del dollaro come “valuta mondiale” sono state rese possibili dagli accordi di Bretton Woods, in base ai quali il valore del dollaro era legato a quello dell’oro, e alla simbiosi tra dollaro e petrolio, da cui il termine petroldollaro, nei regolamenti delle transazioni mondiali della materia prima più commercializzata.

Il dollaro è morto, viva il dollaro. Sin dalla fine della seconda guerra mondiale il dollaro ha ricoperto un ruolo fondamentale sia come mezzo per regolare gli scambi commerciali mondiali, sia come strumento di riserva valutaria. Le statistiche ufficiali non lasciano dubbi riguardo alla centralità della valuta statunitense nel sistema economico e finanziario globale: circa il 59% delle riserve mondiali in valuta sono denominate in dollari, il 64% del debito obbligazionario mondiale è denominato in dollari, il 58% dei pagamenti internazionali, esclusi quelli interni all’eurozona, sono effettuati in dollari, e circa la metà degli scambi commerciali globali sono regolati in dollari.

La rapida diffusione e adozione del dollaro come “valuta mondiale” sono state rese possibili dagli accordi di Bretton Woods, in base ai quali il valore del dollaro era legato a quello dell’oro, e alla simbiosi tra dollaro e petrolio, da cui il termine petroldollaro, nei regolamenti delle transazioni mondiali della materia prima più commercializzata. Sullo sfondo dei conflitti geopolitici scoppiati nell’ultimo biennio, è, tuttavia, cominciata a circolare con maggiore frequenza la parola “dedollarizzazione”, ovvero il processo di distanziamento dei Paesi dal dollaro, con il fine di mitigare i rischi, sia politici che economici, legati alla valuta statunitense.

Mai come in questo 2024 il tema della dedollarizzazione ha avuto così tanta risonanza. A giugno sono iniziate a rincorrersi voci di un possibile e drastico ridimensionamento dell’utilizzo del dollaro nel regolamento delle transazioni commerciali internazionali, poiché si era iniziato a vociferare che il governo saudita non avesse intenzione di rinnovare gli accordi con gli Stati Uniti per mantenere le quotazioni dei prezzi petroliferi in dollari, causando, di fatto, l’imminente caduta del sistema del petroldollaro. Un ulteriore duro colpo all’egemonia del dollaro sarebbe, poi, dovuta arrivare durante il summit dei Paesi BRICS di fine ottobre nella città russa di Kazan, poiché molti analisti erano convinti che le nazioni partecipanti avrebbero presentato una moneta comune, in grado di soppiantare la valuta statunitense come strumento per il regolamento degli scambi commerciali.

Per quanto sul piano teorico la dedollarizzazione possa sembrare di facile realizzazione, la retorica, che lo “status quo” del dollaro sia in discussione, tuttavia, non sembra trovare fondamento. La dismissione del dollaro non può essere attuata in massa e in maniera immediata, poiché gli shock finanziari e monetari che si potrebbero verificare andrebbero ad intaccare il valore dei beni e delle riserve monetarie denominate in dollari di tutti i Paesi del mondo. Il processo di dedollarizzazione delle riserve monetarie è iniziato da tempo e tanto gradualmente, quanto stabilmente la loro quota denominata in dollari è in diminuzione. Dagli inizi degli anni 2000, infatti, le riserve mondiali denominate in dollari hanno registrato una diminuzione di 10% punti percentuali, passando dal 70% al 60% del totale. Le previsioni per il prossimo futuro non prospettano, tuttavia, ritmi di sostituzione elevati e nemmeno un’accelerazione, poiché si stima un possibile ulteriore declino tra il 15% e il 20% per i prossimi 25 anni.

In parallelo si sta anche assistendo alla dismissione delle obbligazioni governative statunitensi ed un relativo aumento delle riserve auree, che le banche centrali mondiali hanno ripreso ad accumulare a ritmi anche superiori rispetto alla media del passato. La politica monetaria di tassi di interesse elevati della Federal Reserve statunitense ha spinto e sta spingendo i Paesi a vendere gli UST per mitigare il l’indebolimento delle loro valute verso il dollaro, tanto che oggi le banche centrali straniere detengono “solo” 3,4 trilioni di dollari in obbligazioni del tesoro statunitense, circa il 14% del totale. Il forte apprezzamento dell’oro, sospinto da questo rinnovato interesse verso il metallo più prezioso, ha solo rallentato la nuova corsa all’oro delle banche centrali, tanto che nel solo terzo trimestre del 2024 gli acquisti netti hanno raggiunto le 909 tonnellate.

Considerando, invece, il ruolo del dollaro nei pagamenti internazionali, la dedollarizzazione non sembra affatto essere iniziata. Analizzando i dati sulle transazioni attraverso il circuito SWIFT, escluse quelle interne all’eurozona, l’utilizzo del dollaro è addirittura aumentato, passando dal 45% del 2019 al 58% del totale nel settembre 2024, sottraendo quote di mercato all’euro stesso.

Anche a livello globale questa tendenza sembra essere ancora più accentuata. Nonostante un sostanziale aumento nella adozione dello yuan, la sua quota rimane sempre sotto il 10% del totale, mentre l’utilizzo del dollaro sembra prevalere su quello dell’euro, passato dal 34,5% al 13% del totale dei pagamenti effettuati.

Il processo di dedollarizzazione è alimentato tanto dagli eventi geopolitici, quanto da quelli economici.

Il processo di dedollarizzazione è alimentato tanto dagli eventi geopolitici, quanto da quelli economici. Se da una parte le sanzioni contro la Russia, il congelamento dei beni della banca centrale russa detenuti all’estero e l’appropriamento dei proventi generati degli stessi beni congelati hanno minato la fiducia e il sentimento di molti Paesi nei confronti del dollaro, utilizzato come strumento di ritorsione e ricatto finanziario, dall’altra gli elevati livelli di inflazione, il costante aumento del debito pubblico negli Stati Uniti hanno accelerato la perdita di potere d’acquisto del dollaro stesso. Giusto per fare un esempio, un dollaro del 1950 corrisponde a 13,10 dollari del 2024, portando, di fatto, il tasso cumulativo dell’inflazione sulla valuta statunitense al 1209%.

Il dibattito sulla dedollarizzazione sembra concentrarsi prevalentemente sul processo di sostituzione della valuta statunitense nelle transazioni commerciali internazionali, poiché, limitando la circolazione del dollaro, si crede che, automaticamente, si possa limitare la sua diffusione e adozione. Per questo motivo, spesso, il processo di dedollarizzazione è stato ed è associato alla adozione di una valuta “sostitutiva”, prima lo yuan, poi una moneta BRICS e ora anche le CBDCs (Central Bank Digital Currencies), in grado di rimpiazzare il dollaro e togliergli lo status di “valuta mondiale”. Molti avevano ipotizzato che, visto il potenziale industriale cinese, le transazioni denominate in yuan avrebbero potuto registrare una deciso aumento. Tuttavia, sebbene vi sia stato un primo tentativo di aumentare la diffusione globale dello yuan, tanto da portarlo a diventare la quarta valuta utilizzata per gli scambi commerciali, la Cina non sembra davvero interessata a perdere il controllo sulla propria valuta, nel momento in cui questa possa essere liberamente scambiata sui mercati finanziari mondiali. L’attenzione si è così spostata sui Paesi BRICS e già a partire dal 2022 molti analisti avevano iniziato a congetturare e a prevedere l’introduzione di una moneta comune BRICS, denominata R5 (secondo le iniziali delle valute dei cinque Paesi BRICS fondatori: rublo, renminbi, rupia, real, rand). R5, secondo le speculazioni fatte, sarebbe stata ancorata ad un paniere di materie prime e commodities, che ne avrebbero dovuto garantire il valore sottostante, come era stato nel caso dell’oro con il dollaro. Il problema principale di una moneta comune, tuttavia, è e rimane la necessità delle nazioni, che adottano tale valuta, di cedere o, quantomeno, delegare parte della propria sovranità finanziaria, monetaria ed anche fiscale ad un organo terzo, che controlla e gestisce la valuta stessa. Non è possibile, in questo contesto, non proporre un’analogia con l’Euro, che prima del suo lancio era anch’esso visto come una moneta alternativa in grado di sostituire il dollaro nel commercio internazionale, ma che con il passare del tempo sembra invece solo soccombere alla valuta statunitense.

In ultima istanza si ipotizza che la dedollarizzazione potrà essere ottenuta una volta che verranno lanciate le monete digitali nazionali, ma i progetti per la loro realizzazione sono per la maggior parte ancora in fase embrionale e solo in alcuni casi si stanno già realizzando dei progetti pilota per verificare l’applicabilità e l’utilizzo di queste nuove forme e strumenti di pagamento.

Ad oggi lo strumento vero per promuovere la dedollarizzazione sul fronte degli scambi internazionali è una loro regolazione attraverso l’utilizzo di altre valute nazionali.

Ad oggi lo strumento vero per promuovere la dedollarizzazione sul fronte degli scambi internazionali è una loro regolazione attraverso l’utilizzo di altre valute nazionali. L’esclusione della Russia dallo SWIFT ha spinto il Paese a promuovere l’utilizzo del rublo, tanto che, secondo i dati resi noti dalla Banca Centrale Russa ad agosto del 2024, il 43% dell’export, che nel secondo semestre del 2024 ammontava a 90 miliardi di dollari, e il 24,5% dell’import, equivalente sempre nello stesso periodo a circa 38 miliardi di dollari, erano regolati in rubli. Aggirare l’utilizzo del dollaro per le transazioni commerciali, tuttavia, non è perseguibile senza lo sviluppo di nuovi sistemi di pagamento e trasferimento delle informazioni, necessari per aggirare, o quantomeno limitare, la partecipazione delle banche statunitensi nel regolamento dei pagamenti. Nella dichiarazione finale dei Paesi BRICS al summit di Kazan è stata ribadita, pertanto, la volontà di continuare a sviluppare i regolamenti nelle valute nazionali in linea con il BRICS Cross-Border Payments Initiative (BCBPI), conosciuto anche come BRICSPay, ovvero un sistema di messaggistica di pagamento decentralizzata e indipendente.

Oggi esistono già delle vere e proprie alternative allo SWIFT. La Russia dal 2014 ha iniziato a sviluppare il System for Transfer of Financial Messages (STFM), al quale, alla fine del 2023, erano connesse 557 banche e società, di cui 159 non residenti in Russia. Anche la Cina ha sviluppato un proprio sistema, il Cross-Border Interbank Payment System (CIPS), сhe nel 2023, ha elaborato circa 6 miliardi e mezzo di transazioni, per un totale di 17,09 trilioni di dollari, con un aumento rispettivamente del 50,29% e del 27,27% rispetto al 2022.

Ad oggi, solo le scelte politiche ed economiche degli Stati Uniti possono davvero promuovere la dedollarizzazione e spingere gli altri Paesi a sostituire i dollari accumulati più o meno rapidamente. Almeno nel breve termine, senza terremoti politici o economici e senza cambiamenti strutturali del sistema finanziario mondiale è difficile immaginare che il ruolo del dollaro possa davvero essere messo in discussione e men che meno che il suo utilizzo possa essere nullo. Nel lungo periodo, invece, la valuta statunitense potrebbe davvero essere sostituita da un CBDC o vedere ridimensionato il suo ruolo visto il maggior utilizzo di altre valute, ma l’elevatissima liquidità del dollaro, lo rende un elemento ancora imprescindibile per il commercio e la finanza internazionale. L’88% delle operazioni valutarie sui mercati mondiali, infatti, hanno a che fare con il dollaro.

Economista

Riccardo Fallico