Un articolo di: Luciano Canfora

Nella polemica contro le "demokrature" da parte dell'Occidente si critica il consenso maggioritario dei leader. Ma negli Usa diventare senatore costa milioni di dollari

In Occidente si era diffusa la semplificazione propagandistica che voleva le “democrazie popolari” come regimi a “partito unico”

Nel quarantennio in cui furono in vita, nell’Europa centro-orientale, le cosiddette “democrazie popolari” (1946 – 1990), la rappresentazione che veniva offerta, in Occidente, di quelle realtà politico-statali era che esse si trovassero in regime di “partito unico”. Era una semplificazione soprattutto propagandistica, che assimilava, senza fare alcun distinguo questi sistemi politici (diversi tra loro e fondati, in vari casi, su coalizioni di partiti) al sistema monopartitico affermatosi in URSS con la presa del potere da parte del partito bolscevico. Non era un giudizio scientifico.

La semplificazione consisteva nel negare significato politico a quelle coalizioni. Tuttavia la realtà non poteva essere del tutto occultata. Così ad esempio si potrebbe ad un certo punto constatare che quelle coalizioni non erano fittizie: nel 1990, emerse a Berlino un cancelliere, Thomas De Maizière, che proveniva dalla CDU della Germania Orientale (dunque nella DDR vi era una CDU). E in Polonia un peso non da poco aveva avuto il partito dei contadini, alleato del POUP (Partito operaio unificato polacco), distintosi soprattutto nel frenare la collettivizzazione della proprietà agricola: che infatti nella Polonia “socialista” di fatto non si affermò. Diversa fu a sua volta la situazione ungherese, dove invece metà circa del latifondo era proprietà della Chiesa.
Sul partito unico dominante in URSS si focalizzava comunque la polemica, con intenzionale trascuranza di un fatto storico assodato: che cioè le rivoluzioni producono, quasi sempre, come effetto di lungo periodo, il predominio del partito che le ha portate alla vittoria (Francia 1793, Russia 1917, Jugoslavia 1945, Cina 1949, Cuba 1959 etc). Naturalmente, la storia non si ferma, e prima o poi quel predominio entra in crisi: per tante ragioni, la più forte delle quali e` il succedersi di sempre nuove generazioni e la conseguente (quasi) impossibilità di “trasmettere” l’esperienza, e di rinnovarla.

Quando i sistemi “socialisti” europei implosero, ciascuno per specifiche ragioni peculiari, la propaganda occidentale – fino ad allora comodamente assuefatta ad alcuni topoi rassicuranti e, in Occidente, efficaci – si trovò spaesata. Ma presto si riprese. Dava noia che, per esempio in Polonia e in Ungheria, fossero tornati, dopo il 1989, al governo, tramite elezioni non più pilotate da una forza egemone, partiti socialisti sorti dalle disciolte formazioni politiche del periodo precedente. E perciò gli uffici preposti, soprattutto in USA, ad occuparsi delle elezioni altrui, si impegnarono molto per agevolare, in successive prove elettorali, la vittoria di forze politiche ritenute più accettabili, più prone (e pronte ad entrare negli organismi retti dagli USA – la Nato – e dalla Germania – la UE). Così, ben presto, dovettero deglutire i Kaczyński in Polonia e gli Orbán in Ungheria. Per la Jugoslavia, dove il potere socialista era più solido, si dovette procedere alla “secessione” pilotata e attizzata dall’estero (prima di tutto la Croazia, poi la Bosnia, poi il Kossovo, divenuto in breve vivaio di guerrieri ISIS: inconvenienti non previsti dai “democratòfori” USA-UE). Comunque in quel caso ci volle, per prevalere, una vera e propria guerra, della NATO, alla Jugoslavia (1999) con bombardamenti su Belgrado a cui si associò stoltamente anche il governo italiano.

La “demokratura” è un’escogitazione lessicale mirante a bollare chiunque non si sottometta al fondamentalismo NATO-UE

A proposito di bombardamenti, creò qualche problema il fatto che un protetto degli USA, giunto al potere a Mosca, Boris Elc’in, facesse bombardare il suo Parlamento (la Duma), il cui presidente, Kashbulatov, non obbediva a lui. In un momento di distrazione, cui si pose presto rimedio buttandola sul “mattacchione buon bevitore etc., il “Corriere della sera” titolò, all’indomani del bombardamento contro la Duma: “Il golpe di El’cin”. Ma quel presidente era amico e perciò andava comunque bene. E la sua rielezione veniva organizzata direttamente da Washington con tutti gli “strumenti” con cui, consuetamente, si vincono le elezioni.

Il boccone era troppo grosso: trasformare la Russia in uno stato vassallo della NATO. È dalla reazione nazionale contro tale “colpo grosso” che scaturì Vladimir Putin, abile nel saper invertire la tendenza, per gradi: sul piano interno (limitare lo strapotere dei nuovi oligarchi fioriti alla corte di El’cin) e sul piano internazionale (esigenza, messa presto in chiaro, che la Russia venisse trattata dalla NATO, cioè dagli USA, su di un piede di parità).
A questo punto cominciò a serpeggiare, nella fucina propagandistica NATO-UE, lo pseudo-concetto della “demokratura”, escogitazione lessicale mirante a bollare chiunque non si sottometta al fondamentalismo NATO-UE. Certo, il termine è vacuo: non potendosi più inveire contro il “regime a partito unico”, bisognava comunque bollare la nuova realtà, sgradita, di un Paese ancora molto forte su vari piani, non più prono e tanto meno pronto a far depredare le proprie risorse e ricchezze, e cosa fastidiosissima, chiamato periodicamente alle urne, e colpevole di riconfermare il consenso alla propria leadership. Donde l’incongruo neologismo: che si ripropone di continuo, anche con l’aiuto dei gruppi che nell’interno dell’attuale Russia innegabilmente pluripartitica, si impegnano intensamente per far valere le ragioni di chi preferiva il docile El’cin. Contro questi gruppi la repressione è aspra e persecutoria: non dissimile peraltro da procedure quali la messa fuori legge e persecuzione, in USA e in Germania Occidentale, dei Partiti Comunisti e dei loro dirigenti al tempo della guerra fredda.

Ma l’aspetto più caratteristico dell’attuale ondata propagandistica è che essa scaturisce da un Occidente euro-nordamericano in cui ormai lo stato di salute della democrazia politica (intesa come lotta tra partiti di diverse o opposte tendenze) è pessimo: né solo per l’assenteismo ormai massiccio e non rimediabile ma soprattutto per la definitiva, e intrinsecamente antidemocratica coniugazione tra ricchezza e meccanismo elettorale. Già nell’ormai lontanissimo maggio 1990, un politologo statunitense vicino al Partito Democratico, Joseph La Palombara rivelò (e la denuncia ebbe larga circolazione anche nella stampa italiana) che, per la conquista di un seggio senatoriale USA, il costo della “campagna” equivaleva, in lire italiane, a circa 40 miliardi. Si sa che la prassi è diventata, via via, sempre più oscena.

Ricordiamo, in conclusione, che il dominante puritanesimo (giornalistico) verso le cosiddette “demokrature” era del tutto estraneo alla forma mentis e al lessico di esponenti “occidentali” di rilievo, e insospettabili, quale Winston Churchill. Egli, nel gennaio 1927 e nel febbraio 1933, si espresse ripetutamente con viva ammirazione nei confronti di Benito Mussolini (nel ’27 fu da lui ricevuto a Palazzo Venezia). Lo definì “il più grande statista vivente”, “reincarnazione del genio Romano” etc. Ma soprattutto volle dichiarare pubblicamente che Mussolini godeva del “pieno consenso” del popolo italiano (intervista all’Ambasciata britannica di Roma, gennaio 1927): da due anni e mezzo era stato ucciso Giacomo Matteotti, e dal novembre 1926 erano stati sciolti tutti i partiti tranne quello fascista. Forse bisognava avvisarlo che poteva trattarsi di una “demokratura”.

Oggi, dopo circa un secolo dall’innamoramento di Churchill per il Duce, veniamo ad apprendere, da fonti autorevoli, che, nelle campagne elettorali dell’Occidente (da Taiwan agli USA), sarà possibile – con l’intelligenza artificiale in mano al magnate Elon Musk – creare e diffondere discorsi falsi e devastanti di qualunque leader o candidato (Corriere della Sera, 20/12/2023, pag.10).
Un punto terminale di un glorioso modello politico irrimediabilmente compromesso.

Professore emerito dell’Università di Bari

Luciano Canfora