Visto dalle ville impeccabili di Georgetown, dall’alto di quelle montagne di dollari, il mondo è un’accozzaglia di biasimevoli imperfezioni - a cerchi concentrici, a cominciare da una città che vorrebbe essere la capitale globale…
Nel 2023 il numero degli omicidi a Washington è aumentato del 37% su base annua
A Washington, latinos e soprattutto afroamericani sono la maggioranza della popolazione. Ma la ricchezza media delle famiglie wasp è circa ottanta volte più grande della loro. C’è gente come Bill Gates e Jeff Bezos. Visto dalle ville impeccabili di Georgetown, dalle agenzie inamidate di Langley, dall’alto di quelle montagne di dollari, il mondo è un’accozzaglia di biasimevoli imperfezioni – a cerchi concentrici, a cominciare da una città che vorrebbe essere la capitale globale, ma certo è la capitale nazionale degli omicidi: nel 2023 sono aumentati a Washington del 37% rispetto all’anno precedente, in particolare sono state uccise più di 100 persone sotto i 18 anni. Nel periodo più democratico della storia americana, gli anni Sessanta, a Washington rivolte e incendi sono arrivati a pochi isolati dalla Casa Bianca; la sede dell’FBI è stata costruita come un vero e proprio fortilizio, che si vanta di avere incorporato secoli di sagacie edilizie contro assedi e sommosse. In alcuni quartieri periodicamente ci sono incursioni di poliziotti in assetto di guerra, bardati come i marines a Kabul. Con gli stessi risultati. A Washington ci sono stati sindaci di ogni colore; nessuno in grado di cambiare questa intrinseca caratteristica della città: molto disuguale, molto violenta, molto terzomondista. I padroni vivono in aree sostanzialmente recintate e protette; come quelle frequentate da villeggianti e postulanti nelle lussuose agenzie di collocamento.
Il cortile di casa degli Stati Uniti sembra altrettanto disordinato, insudiciato, biasimevole. Dall’America Latina proviene un flusso inarrestabile di affamati, di immigranti e di narcotrafficanti. Il popolarissimo presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, è stato accusato dalla DEA di collusione con i cartelli della droga; accusa che sotto varie forme, principalmente il riciclaggio, non è stata negata quasi a nessuno dei dirigenti latino-americani, secondo un copione che ha episodi clamorosi, dal mitico generale Gutiérrez Rebollo fino al recentissimo arresto di quello che era stato per anni presentato come il primo alleato nella guerra contro la droga: Juan Orlando Hernández, vincitore in Honduras delle elezioni del 2013 e del 2017. In Guatemala è arrivato Bernardo Arévalo, ma il modello precedente è ancora operativo, con Rafael Curruchiche in prima linea.
Messico, Honduras, Guatemala sono i Paesi più vicini alla frontiera statunitense, ma, in varie forme, la stessa cronica instabilità e inaffidabilità è presente nell’intero continente. Sono interpretate con cautela perfino le vittorie di gruppi filoamericani, come in Brasile ieri e in Argentina oggi. La vittoria di Jair Boszonaro ha infatti innescato il ritorno di un Lula furibondo, diventato capofila dei BRICS, cioè il motore dell’alternativa globale.
Per gli Stati Uniti, il “destino imperiale” di governare il mondo significa convivere con il disordine del mondo. La sottile distinzione tra caos, anarchia, disordine, è venuta in soccorso. Dagli anni Sessanta molti hanno invitato ad una spregiudicata comprensione dei sistemi complessi. Già il Nobel a Ilya Prigogine, nel 1967, apriva la strada a contaminazioni tra scienze della natura e della società: le fluttuazioni e le perturbazioni di un sistema, in circostanze opportune e guidate, generano un funzionamento nuovo e migliore, ovvero più vantaggioso. Negli Stati Uniti la teoria del caos ebbe una fortuna straordinaria, consacrata con la divulgazione di James Gleick nel 1987. Fu una pacchia per tanti Dottor Stranamore. Il pensiero strategico se ne impadronì a suo uso e consumo, rinnovando il concetto di Pax Americana, separato e distinto dal concetto di un ordine internazionale basato sulle regole, RBO (rules-based order).
A Washington, un gruppo influente ritiene che per vincere la sfida epocale con la Cina, prima deve essere frammentata la Federazione Russa
Dice la teoria che alcune configurazioni sociali non possono purtroppo essere organizzate come si vorrebbe, possono però essere governate. Instabilità, retroazioni negative, interazioni non lineari, disordine, violenza, non pregiudicano necessariamente la rete e la verticale di potere, i confini e la gerarchia. Anzi, frammentazioni e perfino disintegrazioni di sottosistemi possono ritornare utili al miglior funzionamento complessivo. A volte vanno incoraggiati, non ostacolati.
La Libia è un esempio recente: è stata destabilizzata profondamente e ha portato destabilizzazione in Europa (in Italia in particolare), ma ha rafforzato i vincoli del sistema. La Commissione intelligence della Camera statunitense lo ha messo nero su bianco: perfino a Bengasi, l’11 settembre 2012, non sono stati commessi errori. Supremo terreno applicativo della teoria sul caos come sorgente di vita è la Federazione russa e le sue 24 repubbliche. A Washington, un gruppo influente ritiene che per vincere la sfida epocale con la Cina, prima deve essere frammentata la Federazione Russa, in una pluralità di componenti etniche, linguistiche, nazionali, tribali, colpendo al cuore l’identità trinitaria di russi, piccolo-russi, bielorussi. Si vorrebbe ridurre la Russia alle dimensioni della Moscovia del XIII secolo, con un programma di costituzionalizzazione democratica forzata, stile Giappone post-1945. Non si tratta di una scelta guerrafondaia cominciata nel 2014: è una vecchia opzione, sulla quale periodicamente si mette il freno o l’acceleratore. È un lavoro di pazienza: per l’impero spagnolo e per l’impero ottomano ci sono voluti secoli.
Dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, si auspica la disintegrazione della Federazione Russa. Si sa che sarebbe possibile soltanto attraverso una serie di scontri ad altissimo rischio, che tuttavia sono giudicati meno sfibranti di ogni altra alternativa. Si dice: l’URSS si disgregò e dopo non siamo mai stati così bene. La cremlinologia dice che repentini e radicali cambi di sistema si sono già visti a Mosca, dal 1917 al 1991, accompagnati da profonde contrazioni interne ed enormi vantaggi esterni. La colonizzazione della Russia e delle sue immense riserve naturali sarebbe l’unica salvezza. Un aumento del caos è più vantaggioso che gestire il declino odierno. Anche la sola minaccia del caos rinsalda un RBO altrimenti centrifugo.
È una pazzia in senso sociologico, perché crea un’estrema sfida esistenziale nell’era dell’atomica e dell’iper-connessione, agli sgoccioli dell’antropocene. Ed è una pazzia in senso clinico. In uno dei suoi ultimi scritti, in confronto con Freud, Melania Klein riformula le idee di possessività, di annientamento, di autodistruzione, e ritorna su un’antica parabola: in due si combattevano per la vita e per la morte; esasperato Dio disse ad uno di loro: “Ti darò quello che vuoi, ma ti avverto: al tuo peggior nemico darò il doppio”. Gli rispose: “cavami un occhio”.
L’unica speranza è che abbiano la meglio quelli con la testa a posto e che ragionano lungo i molteplici sentieri della coesistenza, del riconoscimento, della pace. Dalla “mamma tigre” Amy Lynn Chua al senatore James David Vance, per fortuna c’è anche un’altra America.