Nel Deep State dei Servizi segreti americani ci sono gli strateghi più orientati alla guerra. Il loro modello è quello del darwinismo sociale. E tuttavia anche in quegli strati profondi del potere americano si dovrà tener conto della nuova amministrazione guidata da Donald Trump. E del consenso popolare da lui ottenuto
Xi e Putin sono cresciuti dentro la cultura marxista, erede del razionalismo. In questa cultura è elementare che una guerra mondiale non può avere vincitori
Vladimir Putin e Xi Jinping hanno detto più volte che “una nuova guerra mondiale non deve essere combattuta e non può essere vinta”.
Questa frase è stata ripetuta per l’ennesima volta da Xi a Joe Biden nel loro ultimo incontro, in Perù. La frase del presidente cinese non si trova nei resoconti ufficiali americani; né sul portale dell’ambasciata americana in Perù, né sul portale della Casa Bianca. Lo sappiamo soltanto perché, nel loro resoconto, lo hanno riferito i cinesi, i quali sanno bene che a Washington molti credono che una nuova guerra mondiale possa e debba essere combattuta e vinta, costi quel che costi.
In un altro passaggio della loro ultima conversazione in Cile, il presidente Xi dice a Biden: “La Cina ha onorato i propri impegni pubblici, sempre. Se gli Stati Uniti dicono una cosa ma ne fanno un’altra, sempre, questo risulta nocivo per la sua immagine e insidioso per l’amicizia tra Cina e Stati Uniti”. Anche questo pezzo dell’incontro manca nel resoconto americano, mentre primeggia in quello cinese. Nel resoconto americano c’è però un passaggio di Biden che sembra una risposta a quella accusa che non si vuole registrare formalmente: “Non siamo sempre stati d’accordo, ma le nostre conversazioni sono sempre state sincere e franche. Non ci siamo mai presi in giro. Siamo stati onesti l’uno con l’altro”. Dunque, il resoconto americano continua con dichiarazioni di Biden che i cinesi ascoltano da tempo con beneficio d’inventario: “La competizione tra i nostri due paesi sia competizione, non conflitto”, eccetera.
Il punto è che Xi e Putin sono cresciuti, bene o male, dentro la cultura marxista, che programmaticamente pretende di essere l’erede del migliore razionalismo della storia, come scrisse Frederich Engels nel 1886: “Il socialismo è il punto d’approdo della filosofia classica tedesca”. In questa cultura razionalista è elementare che una nuova guerra mondiale non può essere vinta da nessuno. Sappiamo persino l’espressione facciale che Putin ha quando dice questa frase, nell’intervista con Oliver Stone.
Quando in Perù parla a Biden, Xi è quasi didascalico, paterno, paziente nell’esporre la dritta via ad uno scolaro testone delle scuole serali; gli dice: “Il mondo odierno è burrascoso, piagato dai conflitti. I vecchi problemi sono aggravati da quelli nuovi. L’umanità si trova ad affrontare sfide senza precedenti. Soltanto solidarietà e cooperazione possono aiutare a superare le attuali difficoltà. Solo una cooperazione reciprocamente vantaggiosa può portare a uno sviluppo comune. Cina e Stati Uniti dovrebbero tenere a mente gli interessi comuni e dare più certezza ed energia positiva a questo mondo burrascoso. Sono fermamente convinto che una relazione stabile tra Cina e Stati Uniti sia fondamentale non solo per gli interessi del popolo cinese e americano, ma anche per il destino dell’intera umanità”.
Il guaio è che la classe dirigente americana non è stata allevata alla scuola del razionalismo classico, ma alla scuola della sopravvivenza malthusiana e darwiniana. Per Thomas Robert Malthus guerre, pestilenze, carestie regolano provvidenzialmente gli eccessi del genere umano; Charles Darwin prende da lui questo punto centrale e mette al primo posto non il razionalismo, ma l’adattamento. Ci sarebbe, per Darwin, una tendenza corale degli esseri viventi a produrre trucchi e inganni, travestimenti delle reali intenzioni, in una spietata lotta per la sopravvivenza, regolata dalla selezione naturale e dall’eliminazione delle forme inadeguate di esistenza. Il suo amato cugino Francis Galton inventò in proposito l’eugenetica.
Il darwinismo è il tema centrale e assorbente della cultura anglofona; si ritrova in mille versioni inconfessate, dissimulate, accrocchiate – in ultimo, ma non per ultimo, gode di suprema autostima dentro un ufficio sottoterra nei dintorni di Langley. Non è un ufficio in bella mostra tra sculture, monumenti, gallerie d’arte e musei, facili da vedere nel giro turistico virtuale dell’Agenzia. Dietro la facciata, sotto, c’è il meglio.
Alcuni, a Langley, stanno preparando gli scatoloni, perché i trinariciuti trumpiani si preparano a irrompere con le movenze dei peggiori tagliatori di teste. Il trasloco è un incerto del secondo mestiere più vecchio del mondo e i trumpisti hanno più dimestichezza con il primo, oltre che con le sfasciacarrozze; dunque, sarà cavalleresca tenzone di Weltanschauung e di coltellate nella schiena.
Nondimeno, un ufficio a Langley non teme gli incerti del trasloco; non paventa l’arrivo di una Tulsi Gabbard e altri come lei. In quell’ufficio, la russofobia è paradigma e ragione di vita, è l’ultima Thule, il bastione di Orione dove poi finisce l’universo. Sono rintanati, in quell’ufficio, i distillati di una collaudata competenza: lo sperticato elogio delle spie che Thomas Hobbes scrive nel De Cive e la firma di Francis Walsingham come 007 nelle sue missive alla regina Elisabetta; negli scaffali ci sono le ricevute dei dobloni che affondarono l’Invincibile Armada e le sterline del libro mastro della Compagnia delle Indie. Il fardello dell’Occidente è stato ereditato da americani tranquilli – e patriottici: soltanto quello che va bene per gli Stati Uniti va bene per il resto del mondo.
Quell’ufficio sta sottoterra, ma è pietra angolare e chiave di volta della CIA; sopra è stata costruita quella chiesa, come se fosse di fronte alle porte dell’Inferno. Dentro, stanno rintanati i tempi lunghi della storia, che contemplano l’esecuzione paziente del Grande Gioco. La Russia sta al cuore dell’Heartland di Halford Mackinder e, alla fine del gioco, non è prevista che una possibile stazione d’arrivo: spacchettare l’orso in mille pezzi e spolpare le sue succulente risorse. I presidenti vanno e vengono; il Grande Gioco continua e, tra alti e bassi, deve durare tutto il tempo necessario, anche secoli. Come secoli ci sono voluti per spacchettare e spolpare l’impero spagnolo e quello ottomano.
Nei piani superiori si svolgono corsi sulla propaganda e sull’imbroglio (“non generiche istruzioni, ma interi corsi”), come orgogliosamente dichiarato da Mike Pompeo. In basso, in fondo in fondo, in quell’ufficio appartato, polveroso, pensoso, vari dottor Strangelove, dottor Stranamore, non pensano proprio a trasformare le vecchie ragioni della prepotenza occidentale in carta igienica. Se la ridono a pensare che Donald Trump possa tirare la catena – andasse giù quell’ufficio, andrebbe giù tutta la struttura sovrastante.