Per millenni e sotto tutte le latitudini, ogni potere dispotico ha esercitato un dominio assoluto sui sudditi, trattati come schiavi e tenuti nell’impotenza, per estorcere quanto più possibile. Quello che noi chiamiamo popolo era considerato un gregge, spremuto fino all’osso, flagellato dalle carestie e dalle epidemie.
In Occidente, per più di duemila anni, il popolo invece ha avuto spesso buona stampa, dai comizi di Pericle all’antico Senatus Populusque Romanus, fino al solenne We the People nel preambolo della Costituzione americana, che culmina nell’apoteosi del Gettysburg Address. Il cristianesimo raccoglie e potenzia una specifica cultura populista, che rivive in tanti contesti, in particolare nelle straordinarie pagine tolstojane.
Tuttavia, il popolo è stato anche visto con sospetto, soprattutto da quando, dopo il 1945, si è affermata una nuova democrazia, nella quale sono entrati lentamente quelli che prima erano tenuti fuori, dai nullatenenti agli immigrati, dalle donne agli afroamericani. Il modello di una democrazia elitaria, caratterizzata non dalla partecipazione, ma da una competizione fra élites, fu teorizzato da J. A. Schumpeter. Nel paese di Marat e Delacroix, già nel 1954 Maurice Duverger ha scritto a proposito di una Démocratie sans le peuple.
Il punto è stato argomentato da S. M. Lipset in un capolavoro della politologia destrorsa: meglio non esagerare con la partecipazione. Non è necessario che un popolo imprevedibile e ingovernabile vada alle urne; basta un elettorato adeguatamente addestrato, che garantisca una garbata competizione fra beneducati gruppi dirigenti. Il «consociativismo» è la definizione più azzeccata: possono cambiare i suonatori, ma la musica deve essere grosso modo sempre quella. Il padrone del teatro paga i musicanti dunque sceglie la musica. Sulla scena c’è la rappresentazione della politica, a volte caciarona; gli elettori sono spettatori accomodati dentro una sala attrezzata e sorvegliata. Se qualcuno grida che il palazzo sta andando a fuoco, penseranno che sia soltanto una trovata dello spettacolo oppure che si tratti di un pazzo incidentale.
Il 2024 è un anno di elezioni, in Europa e negli Stati Uniti. Taluni prevedono che non cambierà niente e altri sperano che cambi tutto. Comunque, non sarà il popolo a votare. Infatti, elettorato e popolo sono due realtà separate e distinte. Il popolo è un’idea politica e sentimentale; l’elettorato è la concreta realtà dei votanti. Il popolo è tutto da interpretare e può esprimersi nell’astensionismo e nel non-voto; l’elettorato si pronuncia chiaramente. Il voto non riproduce le volontà degli elettori, ma l’opposto, in un certo senso: il voto riproduce la capacità degli eletti di creare i propri elettori. Perché il popolo nasce dal basso della scala sociale; l’elettorato è una creazione dall’alto.
Il popolo può essere deluso e demoralizzato; allo stesso tempo, l’elettorato può invece riflettersi fiduciosamente nella classe politica – anche perché in larga parte è una sua costruzione: nei salari, nelle pensioni, nelle scuole, nella comunicazione, nelle mance, nelle regole. Larghissime fasce sociali sono direttamente o indirettamente figlie privilegiate di un sistema di potere, dunque lo riconfermano puntualmente nelle elezioni, con occasionali oscillazioni d’umore.
Purtroppo, si dice, è cresciuta un’altra entità, dai contorni indefiniti; il popolo si ripropone come soggetto antagonista. Nell’immagine della moltitudine, è un agglomerato tumultuoso, raccolto intorno a una semplice bandiera: la volontà di sopravvivenza contro un modo di produzione che oggi in Occidente sembra improntato primariamente dall’arroganza, dalla guerra, dalla distruzione creativa di non si sa bene che cosa. La sperimentazione di una nuova umanità, dalla CRISPR all’editing genomico, sembra per certi versi un rifiuto di questa umanità.
Insomma, il 2024 è un anno di elezioni, in Europa e negli Stati Uniti, ma non può essere il popolo a decidere i suoi nuovi destini. Trump, i sovranisti, i pacifisti, gli ecologisti, i rivoluzionari, gli estremisti, i comunisti, i fascisti, devono stare lontano dalle stanze dei bottoni; se un errore di sistema dovesse permettere l’impossibile, eventuali vincitori sgraditi saranno ricondotti alla ragione, con le buone o con le cattive. Un possente marchingegno impopolare si preoccupa di correggere eccezioni e lacune.
Forse, non ci saranno più elezioni come quelle del 2024. Regole e interpreti potrebbero cambiare: questa moltitudine globale ad alcuni appare oltremodo viziata, pretenziosa, insolente. Ci sono troppi rischi che elettorato e popolo possano coincidere.