Un articolo di: Nello Del Gatto

Per salvare quello che resta della popolazione di Gaza e per gli israeliani sequestrati il 7 ottobre serve un passo indietro. Di Hamas e del governo israeliano. Ma nessuno vuole farlo

I colloqui per tregua e liberazione degli ostaggi da Gaza continuano a rivivere il loro giorno della marmotta. O, se si vuole, come in uno spietato gioco, ritornano sempre al via. Anche in questi giorni, quando a Doha si stanno discutendo i dettagli e da più parti si risente il mantra “mai stati così vicini ad un accordo”, per poi vedere tutto crollare.
Una trattativa, si sa, si conduce in due, più i mediatori. Il crollo della stessa dipende dalle posizioni di entrambi, dalle loro richieste. È noto a tutti che, fissato un obiettivo tenuto segreto, si alza la posta della contrattazione per poi trattare e giungere nei pressi di quell’obiettivo per poi accettare.
L’obiettivo israeliano è chiaro, e rinchiuso in tre condizioni: liberazione di tutti e cento gli ostaggi detenuti a Gaza, sia quelli in vita che quelli già cadavere; eliminazione di Hamas dalla Striscia; che non ci siano più pericoli per il Paese ebraico dalla Striscia.
Ma quali sono gli obiettivi di Hamas? Difficile, se non impossibile, dirlo. I vertici del gruppo che controlla Gaza, motivarono il massacro del sette ottobre con le operazioni israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme dei mesi precedenti. Chiaramente una facciata, considerando che l’operazione era stata programmata e progettata da anni. Nel corso di oltre un anno di guerra, gli obiettivi e le condizioni di Hamas sono cambiati, anche perché la leadership è stata eliminata dalle forze israeliane. Non a caso, negli ultimi giorni si è diffusa la notizia della garanzia ai leader del gruppo di una sorta di salvacondotto anche futuro che li tutelerebbe dall’essere attaccati dall’esercito. Come la garanzia per i prigionieri palestinesi che sarebbero fatti uscire dalle carceri israeliane in cambio degli ostaggi (parliamo di quelli con diverse condanne per terrorismo ammontanti a diversi ergastoli), che verrebbero esiliati in Paesi terzi.

Hamas chiede tempo per verificare lo stato degli ostaggi, vuole il ritiro totale di Israele dalla Striscia e il cessate il fuoco permanente

Nei giorni scorsi, come un nuovo giorno della marmotta, Hamas, molto abile in questioni mediatiche, ha fatto circolare una lista di trentaquattro ostaggi che avrebbe rilasciato in una prima fase della guerra. La lista, che comprende anche i piccoli Ariel e Kfir Bibas, quest’ultimo ha trascorso la maggior parte della sua vita come ostaggio a Gaza, non solo non chiarisce lo stato di salute degli ostaggi, se siano vivi, morti o feriti, ma è la stessa lista che a luglio Israele avanzò per i colloqui. Round nel quale Hamas non volle neanche sedersi al tavolo e che ricalcava la proposta già avanzata a maggio e annunciata dal presidente Biden, respinta da Hamas.
Tra l’altro, il nome del beduino musulmano Youssef Ziyadna, l’ostaggio il cui corpo senza vita è stato trovato martedì in un tunnel di Rafah al sud di Gaza (insieme a resti che fanno temere per la sorte di suo figlio Hamza), era nella lista anche diffusa da Hamas il giorno prima. Delle due l’una: o l’uomo era già morto da tempo o l’hanno ucciso mentre si discuteva. L’autopsia lo dirà. Difficile dare credito a Hamas sulla volontà della fine della guerra, se sin dall’inizio ha detto che ha bisogno del sangue di donne, bambini e anziani.
Hamas dice che ha bisogno di tempo per verificare lo stato degli ostaggi, per questo chiede settimane di cessate il fuoco. Negli accordi, inoltre, vuole il ritiro totale di Israele dalla Striscia e il cessate il fuoco permanente. Condizioni che Netanyahu respinge. È rimasto bruciato dalla tregua di novembre 2023, quando Hamas acconsentì a rilasciare ostaggi e poi, dopo solo una settimana, fermò i rilasci e riprese a lanciare razzi contro Israele, facendo riprendere la guerra. Razzi lanciati come nei giorni scorsi, tra l’altro colpendo e danneggiando i due varchi dove entrano aiuti, Eretz e Kerem Shalom. L’intenzione è chiara: mostrare di essere viva, di essere capace ancora militarmente, per alzare il prezzo sul tavolo.
Come l’Autorità Palestinese che, da oltre un mese, conduce un’operazione a Jenin contro Hamas e Jihad islamico, per dimostrare di avere le carte in regola per governare tutta la Cisgiordania, Gaza compresa.
Benjamin Netanyahu, alla sopravvivenza della cui amministrazione chiaramente giova lo stato di guerra, non vuole lasciare da subito né il corridoio Philadelhi, il confine tra Gaza e l’Egitto da dove entrano armi e altro nella Striscia (la quale è chiusa per tre quarti da Israele e solo una parte dall’Egitto) e quello Netzarim, al centro della Striscia. Qui dovranno essere controllati i residenti che volessero tornare nelle loro case al nord. Si parla anche dell’intervento di una organizzazione internazionale sul modello dell’Unifil in Libano. Inoltre, vuole mani libere per poter riprendere a combattere, come nel Paese dei cedri.
Ma Netanyahu ha un problema tra gli altri, non di poco conto. Da un po’ di tempo, i familiari degli ostaggi non vogliono sentir parlare di liste con nomi e numeri precisi di persone da liberare, in buona sostanza definendo delle priorità, ma vogliono tutti fuori. Questo rende impossibile i colloqui per due ragioni: in primo luogo perché Hamas sfrutta queste divisioni per alzare il prezzo; in secondo luogo, perché in qualsiasi contrattazione bisogna avere obiettivi realizzabili.
Che la sopravvivenza del governo Netanyahu dipenda anche dalla guerra, è chiaro, anche se si sono aperte delle crepe nel suo governo con il voto contrario alla finanziaria da parte di Ben Gvir. Partiti dei quali lui è ostaggio e senza i quali non riesce a governare, nonostante abbia raccattato qualcun altro dalla sua parte, vedi il neoministro degli Esteri. Ma è ancora più chiaro che senza che qualcuno faccia realmente un passo indietro, difficilmente si troverà la quadra. Che serve quanto prima nell’interesse della popolazione di Gaza e degli ostaggi.

Giornalista, corrispondente estero

Nello Del Gatto