Nell'impostazione del settimanale britannico c’è una peculiare visione dell’economia attuale, intesa come economia di guerra, che prescrive il controllo degli investimenti, divieti all’esportazione e sempre più drastiche sanzioni. Una visione ben lontana dalla più rinomata cultura liberale inglese, da Adam Smith a Richard Cobden
Secondo l’Economist la guerra alla Russia deve continuare ad ogni modo, mentre nel Medio Oriente la pace si deve raggiungere ad ogni modo
Nella formazione dell’opinione pubblica esistono traversie a volte dissimulate e a volte palesi. Il caso dell’Economist è da manuale, perché esercita da tempo e in maniera evidente un’assai considerevole influenza.
Stiamo parlando del settimanale occidentale più apprezzato, soprattutto tra i vertici di quell’1 per cento del mondo che è frequentemente oggetto delle attenzioni di Oxfam.
I suoi lettori in primo luogo si pesano, poi si contano. Infatti, per lungo tempo l’Economist si è vantato perché letto da pochi e si pubblicizzava con lo slogan “The Economist – not read by millions of people”, non letto da milioni di persone. Adesso, in ossequio alle volgari esigenze di mercato, si gloria di raggiungere un’audience globale di milioni di persone.
Già Karl Marx scriveva che l’Economist era “l’organo europeo dell’aristocrazia finanziaria” e Lenin affermò che era il portavoce, direi il ventriloquo, degli interessi a lungo termine dei miliardari occidentali. Infatti, secondo Lenin nel 1914 il giornale propugnava la pace perché aveva paura che i tormenti della guerra potessero in seguito causare una rivoluzione; a lungo termine era meglio la pace. I peggiori nemici di Lenin erano i socialdemocratici: non volevano la rivoluzione e sostenevano che le guerre si sa come cominciano, ma non come finiscono. La Storia diede ragione a tutti e due: la Grande Guerra portò il comunismo e il fascismo, la rivoluzione e la reazione. Secondo molti storici, la Seconda guerra mondiale fu una continuazione della Prima.
I pacifisti di allora non erano pochi e sapevano di rappresentare il meglio dell’Occidente. Il campione del liberalismo britannico, Bertrand Russell, fu in quel tempo condannato due volte per il suo pacifismo e infine sbattuto in carcere per sei mesi, nel 1918.
Oltre che sostenitore di un lungimirante pacifismo, nello spirito originario il giornale ha sostenuto il liberismo propriamente detto, dall’antistatalismo all’anti protezionismo, dalla deregolamentazione alla globalizzazione.
Nelle ultime due edizioni l’Economist ha segnato due colpi da gong sul ring mondiale dell’opinione pubblica. Sette giorni prima ha pubblicato una copertina molto chiara, con il punto interrogativo e il titolo Putin sta vincendo? Una settimana dopo ha pubblicato una seconda copertina, con un altro titolo su un tema parallelo, ma senza punto interrogativo: Come è possibile raggiungere la pace (e parla di pace esclusivamente per il Medio Oriente).
Evidentemente, le questioni di guerra e pace gli stanno molto a cuore – con una specificazione fondamentale: pensa che la guerra alla Russia deve continuare ad ogni modo, mentre nel Medio Oriente la pace si deve raggiungere ad ogni modo. In estrema sintesi, ci vuole la pace in Medio Oriente per potere fare meglio la guerra contro la Russia.
Questa visione dell’economia come continuazione della guerra con altri mezzi è il contrario della più rinomata cultura liberale inglese,
In questa impostazione c’è una peculiare visione dell’economia attuale, intesa come economia di guerra, in termini che ricordano i tempi (rimpianti?) delle cannoniere. Questa guerra giustifica la negazione dei principi liberali; infatti, prescrive il controllo degli investimenti stranieri e l’orientamento degli investimenti all’estero, intromissioni nei patti societari privati e nelle proprietà private, divieti all’esportazione e sempre più drastiche sanzioni (ancora caldamente raccomandate e specificate nell’ultimo numero del confratello statunitense, The Atlantic). Tuttavia, questa visione dell’economia come continuazione della guerra con altri mezzi è in un certo senso il contrario della più rinomata cultura liberale inglese, da Adam Smith a Richard Cobden.
In maniera consequenziale, una visione bellicista porta alla preminenza dell’industria delle armi. Il punto è stato recentemente sottolineato da Romano Prodi, commentando i dati del Sipri,”l’istituto svedese che fornisce i dati più autorevoli e credibili in materia di armamenti”. La situazione internazionale favorisce innanzitutto i mercanti di armi, in buona parte collocati dentro gli Stati Uniti, dove il bilancio della difesa ha raggiunto nell’ultimo quinquennio il 40 per cento del totale mondiale della spesa per le armi (l’Europa spende la metà degli Stati Uniti).
In questo suo ultimo numero impropriamente “pacifista”, l’Economist si occupa anche del suo dirimpettaio sul lato opposto della barricata politica: lo Spectator, che è la Bibbia settimanale dei conservatori inglesi ed il vivaio di quella classe dirigente. Non si tratta di bagatelle tra addetti ai lavori: con l’intervista, 10 dicembre 2023, di Richard Dearlove ex capo del MI6 al Sunday Telegraph, gruppi influenti dell’intelligence inglese hanno apertamente e ulteriormente sottolineato che l’informazione giornalistica è un tema principale dell’interesse nazionale britannico. Dal suo pulpito, l’Economist deride il dilettantismo e l’avventurismo dello Spectator, che sarebbe un settimanale al tempo stesso “riflessivo e teppista”.
Guardando con sufficienza e con sarcasmo la concorrenza, l’Economist si guarda inconsapevolmente nello specchio, perché dilettantismo e avventurismo sono caratteristiche di chi allegramente ripudia quella cultura liberale della quale pretende di essere erede, interprete, divulgatore. Esaltare la guerra e l’economia di guerra è esattamente il contrario della tradizione liberale, liberista, libertaria, in tutte le sue versioni. Sarà l’Economist, ma lascia molto a desiderare, soprattutto come economista.