Un articolo di: Redazione

La “guerra dei telefonini” tra la Cina e gli Stati Uniti ha messo sotto i riflettori non soltanto la crescente rivalità tecnologica tra le due potenze, ma soprattutto gli effetti devastanti che una decisione apparentemente “interna” delle autorità cinesi ha avuto sulle finanze americane e globali.

Le quotazioni del colosso industriale e finanziario globale Apple sono crollate in seguito all’annuncio secondo cui ai funzionari cinesi è stato vietato l’uso degli iPhone. Tra il 6 e il 7 di settembre, la capitalizzazione di Apple è scesa di circa 100 miliardi di dollari dopo che il quotidiano Wall Street Journal aveva citato alcune fonti non meglio precisate “a conoscenza della situazione”, secondo le quali in Cina ai dipendenti pubblici e governativi “è stato severamente proibito” di portare in ufficio gli smartphone con la “mela morsicata” nonché l’utilizzo degli iPhone per lavoro.
Queste misure restrittive, che hanno fatto seguito ad altri analoghi divieti decisi lo scorso agosto da alcuni ministeri della Russia, sarebbero mirate a eliminare le eventuali minacce per la sicurezza nazionale della Cina derivanti dall’utilizzo dei dispositivi di telecomunicazione realizzati dal colosso statunitense dell’elettronica.
La reazione negativa dei mercati non si è fatta attendere: le quotazioni dei titoli di Apple hanno lasciato sul terreno i 4%, dopodiché i principali indicatori statunitensi hanno chiuso la sessione “in rosso”. Non c’è nulla di sorprendente: la “grande” Cina, che comprende anche Hong Kong e Taiwan, è il terzo tra i maggiori mercati di Apple al mondo e genera un flusso finanziario pari al 18% dell’intero income del gruppo di Cupertino. Da Pechino non trapela nulla di ufficiale ma gli investitori cominciano a sospettare che dopo Micron e Tesla anche Apple si sia trovata nel mirino della Cina, coinvolta nella “guerra” contro gli Stati Uniti per la supremazia tecnologica.
Non per caso la decisione drastica è arrivata pochi giorni prima della presentazione ufficiale del nuovo iPhone 15. Il divieto minaccia di danneggiare il lancio mediatico di Apple in Cina, dove tra l’altro smartphone, tablet e pc vengono prodotti. Per evitare le sanzioni occidentali in Russia si vendono gli iPhone assemblati in Cina e in India e importati in base ai cosiddetti “schemi grigi”. Secondo i risultati di vendita del secondo trimestre del 2023 (l’ultimo dato disponibile), il 16% degli smartphone in Cina sono proprio iPhone, sorpassati solo da VIVO e OPPO (18%) e invece a pari merito con Honor (16%). Prima del divieto era previsto che nell’ultimo trimestre 2023, dopo il lancio di iPhone 15, le vendite di Apple sarebbero arrivate a toccare o addirittura superare il 20 per cento.

Spionaggio: Huawei come capro espiatorio

Nel dicembre del 2018 ha fatto il giro del mondo la storia del fermo da parte degli Stati Uniti di Meng Wanzhou, direttore finanziario del colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei nonché figlia del fondatore dell’azienda, Reng Zhengfei. La crociata americana contro il colosso cinese di telecomunicazioni ha terrorizzato i mercati finanziari di tutto il mondo: la tregua commerciale, appena concordata dal presidente di allora, Donald Trump, e dal leader cinese, Xi Jinping, il 1° dicembre del 2018 al margine del vertice del G20 di Buenos Aires era saltata, mentre la decisione è stata interpretata come una vera e propria dichiarazione di  “guerra” commerciale e tecnologica alla Cina.
E oggi si ricorda che, ancora quattro anni fa, Trump aveva invitato gli alleati occidentali a boicottare Huawei perché “con i suoi telefoni la Cina spia il mondo”. Secondo un rapporto dell’intelligence americana “l’azienda cinese è al servizio dell’Esercito cinese”.
“Spionaggio” è la parola d’ordine dietro ogni divieto: nel 2021 i veicoli Tesla sono stati messi al bando dalle strutture governative e dai complessi militari della Cina per paura dello “spionaggio da parte degli USA”.

Guerra dei chip

Da allora le rispettive campagne – anti cinese in America e anti americana in Cina – non hanno fatto altro che andare su di giri, includendo diverse battaglie locali e strategiche, tra cui quella delle tecnologie avanzate e dei semiconduttori. Nel giugno del 2023 gli Stati Uniti e i Paesi Bassi hanno annunciato una serie di misure draconiane, limitando le vendite alla Cina di sofisticate apparecchiature per la produzione di microchip. Protagonista è stata l’azienda olandese ASML così come le società statunitensi Lam Research e Applied Materials che, seguendo le direttive di Washington, avevano imposto limitazioni all’export verso la Cina delle linee tecnologiche e dei robot industriali. Anche il Giappone, altro importante produttore in questo campo, aveva limitato l’export di vari tipi di tecnologie utili per la produzione di semiconduttori.
Lo scorso agosto la “guerra dei chip” tra USA e Cina si è arricchita di un nuovo capitolo: il presidente, Joe Biden, ha lanciato il così detto “investment ban”, limitando gli investimenti statunitensi in Cina per quanto riguarda il settore hi-tech. Il titolare della Casa Bianca ha spiegato la mossa, last but not least, (non ultima) di una serie di botta e risposta tra Washington e Pechino, con “motivi di sicurezza nazionale più che economici”. A suo tempo Stati Uniti avevano proibito l’installazione e l’utilizzo del social cinese TikTok sui dispositivi governativi. Inoltre Huawei e ZTE, altre grandi aziende cinesi del settore telecomunicazioni, sono state escluse dalle infrastrutture della rete 5G in Occidente.

Il controllo delle terre rare

Per rispondere alla stretta nell’esportazione dei macchinari per lo stampaggio dei chip verso la Cina e  all’“investment ban” di Biden, Pechino ha annunciato che “controllerà e limiterà le esportazioni delle terre rare”, indispensabili per far girare l’industria dei semiconduttori di tutto il mondo. La Cina è il più grande produttore di gallio con una quota del 94% mentre per quanto riguarda il germanio e i suoi derivati si attesta sul 67%. Questi materiali rari sono funzionali non solo alla realizzazione di semiconduttori ma sono utilizzati anche nella produzione di pannelli solari, fibre ottiche e nelle tecnologie a infrarossi. Vale a dire che il divieto cinese minaccia di mettere in forse la realizzazione in Occidente della transizione energetica.

Pecunia non olet

Non sono di certo mancate alcune svolte “strane” nella guerra tecnologica tra Washington e Pechino, quando il denaro e i profitti hanno pesato più della presunta sicurezza nazionale. Nel maggio 2023 la Cina ha messo un suo ban sui semiconduttori dell’azienda americana Micron che tra l’altro produce chip di memoria, per “gravi rischi” sulla sicurezza informatica. Meno di un mese dopo Micron ha messo l’“offesa” cinese nel cassetto e si è impegnata a investire 4,3 miliardi di yuan (603 milioni di dollari) nei prossimi anni nel suo impianto di Xi’an, nella Cina centrale. E questo perché il mercato cinese vale il 25% circa del fatturato di Micron che costruirà a Xi’an una nuova linea per la produzione di memorie DRAM, NAND e SSD finalizzati proprio a soddisfare la crescente domanda della Cina.

L’offensiva tecnologica di Huawei

In settembre la tensione tra gli Stati Uniti e la Cina è di nuovo salita di grado dopo la presentazione di un nuovissimo smartphone Mate 60 Pro della stessa Huawei Technologies Co. Il nuovo gadget cinese è basato su un processore centrale “molto avanzato”, elaborato dalla società cinese Semiconductor Manufacturing International Corp. (SMIC) che, secondo i media internazionali, “si trova non molto indietro ai più moderni chip occidentali”. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha dichiarato che “Washington vorrebbe avere il più presto possibile un’analisi tecnica del nuovo chip cinese” e ha intanto invitato l’Amministrazione di Joe Biden a rafforzare la politica “di un cortile piccolo circondato da un recinto molto alto”.
Huawei e SMIC da tempo sono iscritte nelle “liste nere” degli Stati Uniti che impediscono loro l’accesso alle tecnologie d’avanguardia e alle attrezzature più avanzate per la produzione di chip. Non a caso la presentazione di Mate 60 Pro è stata fatta proprio il giorno in cui a Pechino si trovava in visita ufficiale il ministro del Commercio degli USA, Gina Raimondo.
Secondo gli esperti internazionali il processore Kirin 9000, prodotto con la tecnologia dei 7 nanometri, indica a chiare lettere che la Cina ha fatto dei grandi passi avanti verso l’indipendenza nel settore dei semiconduttori. Alcuni esperti hanno addirittura suggerito che il nuovo smartphone di Huawei sarà in grado di fare una seria concorrenza in Cina al nuovo modello di iPhone. Secondo Edison Lee, analista capo per le telecomunicazioni della società finanziaria Jefferies, “lo smartphone Mate 60 Pro minaccia di ridurre le vendite di iPhone 15 addirittura del 38%”.
“È sempre più chiaro che i Paesi industrializzati considerino l’industria dei semiconduttori di importanza strategica”, ha detto infine Ajit Manocha, presidente e CEO di SEMI, l’Associazione internazionale dei produttori di semiconduttori. “Date le attuali tensioni geopolitiche, tutti i Paesi stanno cercando di stabilizzare e di rafforzare la propria posizione in questo settore. Non mi sorprende affatto che la Cina stia lavorando da tempo e con tenacia in questa direzione”.

Giornalisti e Redattori di Pluralia

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