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Il discorso di apertura del professor Antonio Fallico al XVII Forum economico di Verona. Gli Emirati Arabi sono al crocevia del business mondiale in un momento di grandi turbolenze, divisioni e cambiamenti repentini. L'importanza della tolleranza e del dialogo nella diplomazia economica
Malgrado la giovane età gli Emirati Arabi Uniti so sono saldamente affermati sulla scena mondiale
Cari amici,
sono contento di vedervi nella splendida città di Ras al Khaimah che accoglie quest’anno il nostro Forum Economico Eurasiatico di Verona, giunto alla 17ma edizione. La scelta di farne un evento itinerante, fatta nel 2022, si è rivelata fruttuosa, perché porta la discussione direttamente nel cuore della Grande Eurasia, coinvolgendo nuovi Paesi e Comunità.
Quest’anno la scelta per la sede del Forum è andata verso gli Emirati Arabi Uniti, verso Ras al Khaimah, uno degli Emirati che compongono questa Federazione, unica da molti punti di vista.
Malgrado la sua giovane età, essendo nato nel 1971, il Paese si è saldamente affermato sulla scena mondiale e continua ad affermarsi sempre più. Malgrado la sua modesta superficie abitata da11 milioni di persone, è diventato, tuttavia, un soggetto importante ed essenziale non solo a livello regionale, ma globale: uno dei Paesi più influenti del Medio Oriente, un fondamentale snodo per i trasporti aerei e marittimi, potenziato grazie ad una infrastruttura sempre più efficace.
La sua strategia dello sviluppo economico si rivela molto saggia. Non si limita all’esportazione di idrocarburi, ma si diversifica a vista d’occhio, diventando un polo per le attività finanziarie, per i trasporti, per il turismo e incrementando nettamente anche l’energetica verde. Come risultato il PIL degli Emirati Arabi Uniti è cresciuto, da 373 miliardi di euro nel 2019 a 456 miliardi di euro nel 2024, con un aumento previsto di un ulteriore 3,5% nel 2024.
La politica estera degli Emirati è il frutto della loro visione strategica: collaborazione e coesistenza pacifica alla ricerca della stabilità e della prosperità nella Regione e nel mondo
La sua recente adesione ai BRICS, poi, ha notevolmente aumentato il peso degli Emirati Arabi Uniti nel mondo, inserendoli nel contesto di questo organismo che è destinata avere un ruolo significativo nello sviluppo economico internazionale. Nello stesso tempo la Federazione mantiene ottimi rapporti, a 360 gradi, con tutti i protagonisti dell’economia mondiale, senza rompere i ponti con nessuno, anzi, cercando di costruirne nuovi.
Gli Emirati stanno terminando i negoziati con l’Unione Economica Eurasiatica, che riunisce 5 Paesi postsovietici (Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Russia), per allargare la collaborazione nel commercio e negli investimenti. Ne ha recentemente discusso con la Commissione Economica Eurasiatica, a Mosca, il Ministro di Stato per il commercio estero degli Emirati Arabi Uniti, Thani bin Ahmed Al-Zeyudi.
Poche settimane prima, in ottobre, a Bruxelles si era tenuto il primo vertice tra l’Unione Europea e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), di cui gli Emirati Arabi Uniti sono uno dei pilastri. Le discussioni, centrate sul commercio, energia, cambiamento climatico e i conflitti a Gaza e in Libano, si sono svolte nel quadro del Dialogo UE-CCG sul Progetto della diversificazione economica.
I rapporti con l’Italia sono positivi. Nel 2023 il mio Paese era il nono partner commerciale degli Emirati Arabi Uniti, con un volume di scambi di 8,8 miliardi di euro, in crescita rispetto all’anno precedente del 9,5%. Questa tendenza positiva si conferma anche nell’anno corrente. Oltre 600 imprese italiane sono presenti nel Paese, rappresentano il settore delle costruzioni, energia, beni di consumo, sicurezza/difesa, bancario/assicurativo e aerospaziale.
Secondo la SACE, gli Emirati Arabi Uniti sono l’unico Paese dell’area per il quale si prevedono tassi di crescita dell’export italiano a doppia cifra sia per il 2024 (+16,1%) sia per il 2025-26 (+12,5% in media). Gli sforzi degli Emirati Arabi Uniti nella diversificazione economica e lo sviluppo infrastrutturale (+16,1% e +13,7%, rispettivamente): trainano, invece, l’export dei beni di investimento: in particolare la meccanica strumentale (+15,5% nel 2024) e le apparecchiature elettriche (+15,2% nel 2024) dimostrano anche l’impegno del Paese nella transizione energetica per lo sviluppo di progetti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e per l’incremento di impianti di energia rinnovabile come prospettato dalla National Climate Strategy con la quale il Paese punta a tagliare le emissioni di gas serra del 31% entro il 2030 e divenire un’economia net zero entro il 2050.
Il risultato positivo della politica estera degli Emirati Arabi Uniti è il frutto della loro visione strategica: collaborazione e coesistenza pacifica alla ricerca della stabilità e della prosperità nella Regione e nel mondo (Collaboration and co-existence in pursuit of stability and prosperity in the region and the world), e della sua missione: promuovere gli Emirati Arabi Uniti attraverso una diplomazia efficace per sostenere la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo (Promote the UAE through effective diplomacy to support security, stability, development).
Le imprese non amano l’incertezza, ci ritroviamo in un mondo che accelera le sue mutazioni e naviga verso dei mari sconosciuti
Cari amici,
Il Forum Economico Eurasiatico di Verona è dedicato innanzitutto all’economia, alle imprese che devono capire gli avvenimenti in corso, il contesto politico e geopolitico mutevole, e orientarsi nella giungla dei cambiamenti che susseguono vertiginosamente.
Le imprese non amano l’incertezza, preferiscono agire in un quadro ben definito, prevedibile e certo. Ora il contesto non è proprio questo.
Ci ritroviamo in un mondo che accelera le sue mutazioni e naviga verso dei mari sconosciuti.
Le recenti elezioni presidenziali americane sono un nuovo fatto che si è aggiunto ad altri fattori. Gli Stati Uniti rimangono la forza che in gran parte, piaccia o no, formula l’agenda mondiale. Gli altri attori generalmente formulano le loro posizioni, tenendo conto non solo dei propri interessi (non tutti si ricordano come si fa), ma anche delle posizione degli USA.
Oggi si naviga in supposizioni, ipotesi e attese. Cambierà la politica americana e in che misura questo influirà sul corso degli eventi? Per il momento si possono avere solo delle indicazioni di ordine generale sui principi della politica della futura amministrazione degli Stati Uniti.
Queste sono semplici supposizioni, ma quale forma avranno le azioni della nuova amministrazione americana è ancora da vedersi.
L’evoluzione verso una multipolarità, con tutti i rischi e incognite che lo accompagnano, è un processo ormai inarrestabile
Si deve anche tener conto che l’attività della prima potenza mondiale non si svolge in un vuoto siderale. Esistono decine e centinaia di altri attori, ciascuno con i propri interessi, priorità e potenzialità. Proprio dall’interazione dialettica di tutte queste forze si ottiene una sintesi, che rispecchia di eventi che oggi vengono descritti, con più o meno fedeltà ed accuratezza, dai media, e domani diventeranno storia da studiare a scuola.
Abbiamo tutte le ragioni per aspettarci una minimizzazione dell’approccio multilaterale da parte degli Stati Uniti. È vero.
Ma non è meno vero che la rottura del sistema unipolare, l’evoluzione verso una multipolarità, con tutti i rischi e incognite che lo accompagnano, è un processo ormai in movimento e inarrestabile. È una tendenza oggettiva che può essere ostacolata, frenata, ma non arrestata o invertita.
Un esempio lampante di questo processo in corso, una evidenza che salta agli occhi, è la rapida evoluzione del BRICS. Alcuni tendono a presentare questa organizzazione come antioccidentale, concorrente alle organizzazioni protette dagli USA. Ma se è un’alternativa, lo è solo nella sua struttura, nella sua filosofia, nel suo modo di gestire le cose. Non si basa su una gerarchia ferrea interna, non ha un membro senior o dominante, non impone agli altri cosa e come devono fare. È una organizzazione per elaborare una piattaforma comune di azioni nell’ambito geopolitico internazionale e, talvolta, per raggiungere compromessi, discutendo, in condizioni di eguaglianza e parità, i problemi più scottanti dell’attualità, anche tra Paesi concorrenti e non sempre amici per la pelle.
Questo dà dei risultati, non rapidamente, ma reciprocamente vantaggiosi, e per questo destinati a durare. Come esempio recente citerei l’accordo, raggiunto alla vigilia del vertice BRICS a Kazan, tra l’India e la Cina sul pattugliamento nella zona frontaliera conflittuale che dal 2020 avvelena i rapporti bilaterali.
Questa assenza di gerarchia interna viene vista da molti critici come una prova della debolezza e dell’inefficienza del BRICS. Invece ne fa la sua forza, rendendo questo modello di rapporti internazionali sempre più attraente. Il BRICS non impone un nuovo sistema di pagamenti e finanziamenti internazionali, ma studia dei metodi integrativi che potrebbero aggiungersi a quelli presenti. A tale fine è stata costituita la Nuova Banca di Sviluppo, o Banca BRICS, che recentemente è diventata partner del G20 al vertice dello stesso G20 a Rio tre settimane fa.
Assistiamo ad una rapida crescita del numero di Paesi aspiranti a diventare membri del BRICS. La spinta è tale da non essere gestibile per il momento. Una quarantina di Paesi ha pubblicamente espresso l’interesse per aderire al BRICS, di cui 23 hanno già avanzato una domanda ufficiale. E’ stato creato lo status di Partner del BRICS, di cui, per ora, faranno già parte 13 paesi di statura e di peso ineguale: dalle piccole e povere Bolivia o Cuba alla Turchia, paese della NATO, o dalla Bielorussia, alleata alla Federazione Russa, all’Indonesia, il quarto Paese più popolato al mondo, al gigante africano, la Nigeria. Ognuno dei Paesi del nucleo costituente del BRICS e gli aspiranti, trova il proprio interesse. Sarà il modello per delle relazioni internazionali del futuro, basate sul rispetto e la concertazione? Troppo presto per una risposta inequivocabile. Ma queste sono delle tendenze di lunga prospettiva.
Si teme che Trump rinnovi la pressione sugli alleati della NATO per obbligarli a dedicare il 3% del PIL alle spese militari
Per guardare alla situazione odierna in una prospettiva più ravvicinata, tornerei alle conseguenze globali dei risultati delle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Qui ci si perde in congetture sul futuro immediato, anche avendo un’idea dell’approccio ai vari problemi del nuovo titolare della Casa Bianca.
Si è scritto molto che l’elezione di Trump ha generato una ventata di panico in alcune capitali europee e nell’UE. Le ragioni sono molteplici, tra cui la volontà del presidente eletto di mettere fine al conflitto in Ucraina. Diventa possibile una fronda antiamericana in Europa?
La domanda può sembrare ridicola, ma a Londra, Parigi, Bruxelles si pensa di obbligare, con varie azioni per una escalation del conflitto, la nuova amministrazione americana a prendere delle decisioni che questa vorrebbe evitare. Tra l’altro, la Commissione Europea si starebbe preparando a prelevare 392 miliardi di euro dal Fondo di Coesione, destinati al superamento delle disuguaglianze di sviluppo delle varie zone dell’Unione, per spenderli per il rilancio dell’industria bellica europea e in aiuti militari all’Ucraina.
Orbene, una coalizione di governo, quella tedesca, è già caduta per via della discussione se le risorse finanziarie dovevano andare ai militari ucraini o ai pensionati tedeschi… Ma la militarizzazione del settore produttivo è ormai una nuova tendenza che comincia a fare strada nello sviluppo economico.
Si teme che Trump rinnovi la pressione sugli alleati della NATO per obbligarli a dedicare il 3% del PIL alle spese militari, minacciando di lasciare l’Alleanza in caso di disobbedienza dei partner degli Stati Uniti. Parte dei Paesi della NATO corre per ubbidire e farlo sapere.
Tutto questo aumento delle spese militari dove andrà a finire? Questi mezzi finanziari saranno utilizzati per comprare più armi americane!
Ma sembra altamente improbabile che gli USA lascino la NATO. Tutto questo aumento delle spese militari dove andrà a finire? Questi mezzi finanziari saranno utilizzati per comprare più armi americane!
“It’s the economy, stupid!” In questo contesto mi viene in mente proprio questa celebre frase coniata nel 1992 dal Jim Carville, stratega della campagna elettorale di Bill Clinton.
Per quanto riguarda la Regione dove ci troviamo questa mattina, il Medio Oriente, anche questa si trova davanti ad un’incognita. Ritornerà la pace, anche se a denti stretti? Saranno possibili delle normalizzazioni, anche parziali? Andrà avanti un dialogo tra gli attori principali della Regione, che non sempre si vogliono bene? In ogni caso, è lecito ricordarlo, la posizione degli Emirati Arabi Uniti si rivela equilibrata e costruttiva.
L’incertezza regna anche riguardo alle aspettative per le evoluzioni dell’economia globale nel contesto dei cambiamenti in corso e futuri Oltreoceano.
Si dà per scontato che la nuova amministrazione Trump aumenterà i dazi e le tariffe per i prodotti importati, in particolar modo dalla Cina e dall’Asia in generale. Questa mossa dovrebbe causare un colpo allo sviluppo dell’economia cinese e degli altri paesi asiatici e promuovere la reindustrializzazione degli Stati Uniti. Si parla di tariffe del 20% e fino al 60% per alcuni prodotti cinesi. I Paesi interessati se ne staranno ad aspettare, come degli agnelli, che il lupo li mangi? Cosa preparano? Quali potrebbero essere le conseguenze di decisioni simili da parte degli americani?
Questi metodi in pratica sono paragonabili a sanzioni, senza averne il nome. Sono arbitrarie, unilaterali. Giuridicamente legali e obbligatorie sono le sanzioni introdotte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Tra l’altro, lo menziono senza approfondire: tutte le sanzioni sono dettate generalmente da motivi economici, politici, dal desiderio di indebolire il concorrente e non di ottenere da questo delle concessioni.
Lo sbarramento tariffario atteso dovrebbe essere completato con misure fiscali e finanziarie per facilitare lo sviluppo industriale americano. Questa tendenza era cominciata sotto la prima amministrazione Trump, poi continuata dall’amministrazione Biden, che in pratica ha fatto del trumpismo industriale senza Trump, e che la seconda amministrazione Trump potrebbe riprendere in una misura più intensa e radicale.
I tentativi di reindustrializzazione, a spese dei produttori di altri Paesi, sono in corso, ma il loro successo è molto relativo e non assicurato
Certamente si può dire che le tariffe all’importazione erano solo degli argomenti da campagna elettorale per ottenere il sostegno degli elettori della cosiddetta Cintura della Ruggine, l’ex cuore della produzione industriale USA, e che bisognerà vedere quali decisioni saranno effettivamente prese in e in che misura.
I giornali indiani, per esempio, ammettono che questa politica tariffaria americana potrebbe danneggiare la produzione e l’esportazione dell’India verso gli Stati Uniti. Ma nello stesso tempo si dicono sicuri che potranno mettersi d’accordo con gli americani, negoziare delle eccezioni, visto il corteggiamento politico degli USA al loro Paese.
In ogni modo, è evidente che questo tipo di azioni riflette l’incapacità di reggere alla concorrenza con metodi di mercato, in una competizione onesta e leale. Riguarda non solo la Cina.
Ma non è detto che porterà frutti.
Prendiamo la storia del gigante americano dell’acciaio, US Steel. Non regge da anni alla concorrenza con i produttori di altri Paesi. Non lo hanno aiutato le varie misure protettive del mercato interno, adottate negli USA, che hanno distorto la concorrenza senza portare ad una maggiore competitività ed efficienza del campione siderurgico nazionale. In questo contesto uno di questi concorrenti, la giapponese Nippon Steel, ha voluto comprare l’asset americano. Ma questo deal del dicembre 2023 e di un valore di 14,9 miliardi di dollari, è stato bloccato, per ragioni politiche, dalle autorità USA. La situazione rimane in sospeso e ci sono poche possibilità che la futura amministrazione a Washington cambi l’approccio verso questo problema, molto sentito a Tokyo.
Altri tentativi di reindustrializzazione, a spese dei produttori di altri Paesi, sono in corso, ma il loro successo è molto relativo e non assicurato.
La Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC), il più grande produttore mondiale di semiconduttori, ha beneficiato di molti incentivi statali americani per trasferire parte della produzione sul suolo americano. E’ chiaro che gli americani vorrebbero riprendere il controllo, almeno parziale, della produzione di questi prodotti strategici e di trasferirla dall’isola che, prima o poi, ritornerà alla Cina concorrente.
Non dimentichiamo: i cinesi pensano nella prospettiva di decenni e di secoli, non nei termini dei brevi cicli elettorali, come noi in Occidente.
Comunque, la TSMC deve costruire 3 impianti produttivi in Arizona. Nel quadro del Chips and Science Act del 2022 (appunto uno degli elementi del trumpismo senza Trump!) essa conta sulle garanzie del governo statunitense per 6,6 miliardi di dollari e su 5 miliardi di dollari di prestiti, su più del 25% di crediti per le tasse (tax credits). Ma nel progetto si segnalano ritardi, conflitti operativi e altri problemi. I lavori avanzano, ma non al ritmo sperato.
In altre parole, i mezzi finanziari non sono ancora garanzia di un risultato concreto.
In ogni modo, se attuata, la nuova politica tariffaria aggressiva statunitense cambierà certamente i mercati in varie parti del mondo.
Ci si può aspettare il rafforzamento di quello che qualche anno fa avevo già chiamato la regionalizzazione della globalizzazione.
In altri termini, si vedranno formare dei mercati regionali o mega regionali, all’interno dei quali ci sarà una liberalizzazione economica di stampo globalista, ma verso l’esterno saranno difesi con vari strumenti tariffari e politici.
Potrebbe sembrare strano, ma è la Cina comunista a rimanere il più grande difensore della globalizzazione liberale classica, con progressive aperture di mercati, abbassamenti delle barriere tariffarie, uniformizzazione delle regole e delle condizioni per il business nello stile dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La ragione è evidente: in queste condizioni si ritrovano economicamente vincenti. Rileggete il discorso del Presidente cinese, Xi Jinping, al Forum Economico di Davos nel 2017.
Gli Stati Uniti riusciranno a prendere il posto dei cinesi in Europa? Con il gas russo ci sono riusciti
Possiamo presumere che gli USA vorranno chiudere in una certa misura il proprio mercato ai prodotti asiatici e in particolar modo cinesi. Ora stanno premendo anche sui partner europei per spingerli a chiudere anche il proprio mercato alle merci cinesi o limitarne gli scambi.
Abbiamo visto già le prime battute in questa direzione, quando la Commissione europea ha recentemente introdotto delle tariffe (35,3%) sulle auto elettriche cinesi, molto concorrenziali per il rapporto qualità/prezzo sui mercati europei. Pechino ha risposto con tariffe supplementari (30,6%) su alcuni prodotti importati dall’UE, anche se meno importanti in termini di volume e costi: cognac e formaggi.
In gioco ci sono volumi commerciali enormi. Mi permetto di ricordare che l’UE ha importato dalla Cina, nel 2023, per 514,4 miliardi di euro e esportato per 223,5 miliardi di euro. Nel 2023 gli Stati Uniti hanno importato dalla Cina per 473,2 miliardi di dollari ed esportato per 147,8 miliardi di dollari.
Che configurazione potrebbe avere il mercato globale in caso di attuazione dei queste attese?
I mercati americano ed europeo saranno parzialmente chiusi ai prodotti asiatici a basso prezzo. Quali ne saranno le conseguenze per gli altri mercati, per quelli dei Paesi dell’ASEAN, per esempio? Parte della quota di mercato attuale della Cina in Occidente sarà guadagnata da altri Paesi asiatici. I prodotti cinesi a buon prezzo finiranno dove? In Asia, prendendo una parte della quota della produzione locale. L’Europa, chiusa alle merci cinesi, diventerebbe il mercato estero principale di un’America reindustrializzata, grazie anche alla delocalizzazione della produzione dall’UE. Ma le merci Made in USA saranno più care rispetto a quelle Made in China. Potranno riuscire a prendere il posto dei cinesi in Europa? Perché no?
Con il gas russo ci sono riusciti, anche se per 50 anni questi sforzi erano falliti. Dopo aver preso, nel contesto giusto, un paio di decisioni politiche, si fanno esplodere i gasdotti sottomarini russi verso l’Europa (tutti si dichiarano poi incompetenti per indagare), ed è fatta. L’Europa non compra quasi più il gas naturale russo, compra al suo posto il GNL americano più caro e mette una croce sul suo modello industriale efficace e concorrenziale: diminuisce il consumo e la domanda di gas naturale, con la conseguente graduale diminuzione dei prezzi, cosmici nel primi momenti di questa svolta; e assiste passivamente alla propria deindustrializzazione e alla delocalizzazione della sua produzione verso gli USA e anche la Cina. Guardate le statistiche tedesche: la Germania da locomotiva economica europea si trasforma a vista d’occhio nel grande malato dell’economia europea. Chiedete cosa ne pensano ai produttori di automobili tedesche, con la Volkswagen che prevede la chiusura di 3 dei 10 stabilimenti nella madrepatria… Ma anche a quelli dell’industria chimica, metallurgica, produzione di macchinari e così via…
La strategia degli Emirati Arabi Uniti: privilegiare lo sviluppo economico e fare dialogare tra di loro gli imprenditori e le Comunità di tutti i Paesi, anche di diversi blocchi geopolitici
Nelle condizioni economiche e politiche in rapida evoluzione, sullo sfondo della crescente presa di coscienza nelle varie zone del mondo dell’importanza delle decisioni sovrane, dettate dagli interessi nazionali, gli Emirati Arabi Uniti si ritrovano ad un crocevia internazionale, acquisiscono un ruolo di prima parte, insieme ad altri Paesi, sempre più numerosi.
Una eloquente dimostrazione, tra le tante altre, della validità del loro approccio è il fatto di ospitare il XVII Forum Economico Eurasiatico di Verona. Anche esso condivide e sviluppa dalla sua fondazione, nel limite delle proprie modeste possibilità, la strategia degli Emirati Arabi Uniti: privilegiare lo sviluppo economico e degli scambi commerciali per fare dialogare tra di loro gli imprenditori e le Comunità di tutti i Paesi, anche di quelli che appartengono a diversi blocchi geopolitici e sociali. Questo dialogo, che ascolta e rispetta tutti senza discriminazione, è la vera garanzia della pace e del benessere.
Per questo ci troviamo oggi a Ras al Khaimah, negli Emirati. Per questo ci accolgono così bene e ci sentiamo a casa. Per questo, sono sicuro, faremo un ottimo lavoro.
Vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro due giorni fruttuosi.
Grazie!