Un articolo di: Riccardo Fallico

Gli obiettivi per i tagli delle emissioni dei gas serra fissati sia per il 2030 sia per il 2050 sono molto ambiziosi e per essere raggiunti prevedono cambiamenti strutturali così profondi da necessitare ingentissimi investimenti finanziari. Questi traguardi, nonostante gli slogan politici, non sembrano essere di così facile portata per i governi. L’Unione Europe non sembra avere la forza né finanziaria né politica necessarie per raggiungere i propri obiettivi.

Christine Lagarde

Nel recente passato le politiche ambientali hanno assunto un ruolo centrale non solo per gli attori politici, ma anche per gli attori economici. Al World Economic Forum (WEF) nel settembre del 2021, ad esempio, la governatrice della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde, aveva dichiarato che la lotta ai cambiamenti climatici era uno dei fattori da tenere in considerazione per determinare quale politica monetaria impostare.

Fino agli Anni ’80 del secolo scorso ha prevalso la teoria del “raffreddamento globale”, mentre oggi non si parla d’altro, invece, che di “riscaldamento globale”

Il dibattito sui cambiamenti climatici è iniziato, a livello politico, negli anni ’70, quando le crisi ambientali iniziarono ad essere portate all’attenzione del pubblico e il mondo scientifico cominciò ad esprimere le proprie preoccupazioni riguardo al degrado dell’ambiente. Nel tempo si sono fatte varie ipotesi riguardo i cambiamenti ambientali sopravvenuti, e se fino agli Anni ’80 ha prevalso la teoria del raffreddamento globale (global cooling), oggi non si parla d’altro, invece, che di riscaldamento globale (global warming), causato dai gas serra emessi dalle attività dell’uomo. Sebbene la serie di dati troppo ristretta a disposizione non dimostri davvero la correlazione diretta tra le attività delle persone e l’innalzamento delle temperature, il global warming, nonostante spesso gli stessi mass media non facciano davvero chiarezza su questo argomento, è stato identificato come il problema principale per la sopravvivenza degli esseri viventi, tanto che l’attuale “agenda verde” dei governi è prevalentemente indirizzata a modificare l’attuale mix energetico, abbandonando l’utilizzo degli idrocarburi a favore dell’energia elettrica, generata da fonti rinnovabili. Gli obiettivi per i tagli delle emissioni dei gas serra fissati sia per il 2030 sia per il 2050 sono molto ambiziosi e per essere raggiunti prevedono cambiamenti strutturali così profondi da necessitare ingentissimi investimenti finanziari.

Questi traguardi, nonostante gli slogan politici, non sembrano essere di così facile portata per i governi. L’Unione Europea, per fare un esempio, non sembra avere la forza né finanziaria né politica necessarie per raggiungere i propri obiettivi, tanto per il 2030 quanto quelli di emissioni nette zero per il 2050, come ha anche confermato la stessa ECB, a maggio del 2024. Queste conclusioni erano state già rese pubbliche nella ricerca “EU27: Energy Transition Outlook” della società di consulenza Wood Mackenzie del febbraio del 2024, che sottolineava come gli obiettivi del 2050 sarebbero stati raggiunti non prima del 2060, a causa dei lenti tempi di adozione e di implementazione delle necessarie politiche ambientali nell’Unione Europea.

Bisogna chiedersi, tuttavia, se:

Per ridurre le quantità di gas serra emesse sia davvero solo sufficiente cambiare il mix di fonti energetiche utilizzate?

L’adozione dell’elettricità e delle fonti energetiche rinnovabili può davvero avere l’impatto necessario per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero?

Lo sfruttamento, esso stesso ad alta intensità energetica, delle risorse minerarie, necessario per l’elettrificazione del mondo, non arrecherà più danni all’ambiente, non solo in termini di cambiamenti climatici, di quanti ne potrebbe risolvere?

Queste domande sorgono spontanee in relazione ai dati dello spreco di cibo pubblicati nell’analisi “UNEP Food Waste Index Report 2024” del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), che ha messo in luce come nel 2022 i nuclei familiari avessero gettato 1 miliardo di pasti al giorno, creando circa 1,05 miliardi di tonnellate di rifiuti, ovvero 132 chilogrammi di spazzatura pro-capite, rappresentanti circa un quinto del cibo disponibile per ogni consumatore. Sempre secondo i dati dell’UNEP circa un terzo del totale del cibo prodotto al mondo viene sprecato o prima di raggiungere gli scaffali, durante il processo produttivo e logistico, oppure poiché gettato nella spazzatura a causa del suo deterioramento. Considerato che il settore agroalimentare produce il 26% delle emissioni a livello globale, l’UNEP ha stimato che le emissioni relative solo alle quantità di cibo perso o finito nell’immondizia ammontino ad un 8-10% del totale mondiale. Nell’Unione Europea questa percentuale raggiunge il 16%, con una produzione di 59 milioni di tonnellate di rifiuti di cibo, come affermato da uno studio del 2022 della Commissione Europea.

Gli elevati tassi di consumo generano elevate quantità di rifiuti

Il problema dei rifiuti, però, non è limitato solo al settore agroalimentare. Il sistema di produzione e di consumo, consolidatosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha rivoluzionato tutte le abitudini di spesa degli individui, che, allontanandosi da una logica di stretta necessità dei beni, sono stati trasformati in meri consumatori. Gli strumenti finanziari, poi, che sono stati messi a disposizione hanno ulteriormente incentivato la “transizione” verso un consumo maggiore rispetto alle nostre vere necessità. Basti pensare come i sistemi di pagamento elettronici abbiano di fatto slegato l’acquisto di un prodotto dall’effettiva disponibilità monetaria fisica del consumatore stesso, permettendogli di attingere a tutta la propria liquidità, nel caso delle carte di debito, oppure prendendo a prestito ulteriori somme di denaro non immediatamente disponibile, come nel caso delle carte di credito.

Gli elevati tassi di consumo, quindi, hanno generato elevate quantità di rifiuti. Gli ultimi dati della Banca Mondiale (WB) indicano che oggi i rifiuti solidi urbani ammontino a circa 2 miliardi di tonnellate all’anno, con un incremento stimato fino a 3,4 miliardi di tonnellate, ovvero circa il 70% in più, entro il prossimo trentennio. I Paesi economicamente più sviluppati sono anche i maggiori consumatori e, quindi, i maggiori produttori di rifiuti, circa il 34% del totale mondiale. Quasi la metà dei rifiuti prodotti, circa il 44%, è legata al cibo e all’agricoltura, mentre i rifiuti da carta e cartone e plastica rappresentano, rispettivamente, il 17% e 14%. Ovviamente tutto quello che non viene riciclato viene stoccato e, in questo contesto, non si può non menzionare che le emissioni di gas serra prodotte dalle discariche a cielo aperto nel 2020, secondo uno studio della Global Methane Initiative, hanno rappresentato l’11% delle emissioni totali di metano a livello mondiale.

I benefici del riciclo sembrano quindi essere elevati, ma, allo stesso tempo, rimangono lontani dall’essere davvero raggiungibili

Nel caso non si riesca a contenere le emissioni generate dagli sprechi, il riciclo dei materiali, nonostante il suo tasso globale si attesti intorno al 20%, potrebbe essere un ulteriore potenziale strumento non solo per l’abbattimento delle quantità di gas serra derivanti dai processi produttivi, ma anche da quelli di sfruttamento delle materie prime. Secondo il rapporto “Metal Recycling Factsheet” del 2022 di EuRic, associazione europea che promuove il riciclo di diversi materiali, usare gli scarti dell’acciaio permette di tagliare le emissioni del processo di produzione del 58%, mentre riciclarlo permette di tagliare del 72% il consumo dell’energia rispetto al processo di produzione primario. Altri vantaggi sono la riduzione dell’uso di acqua, -40% e dell’inquinamento di acqua e aria, rispettivamente, -76% e -86%. L’utilizzo degli scarti di alluminio permette, addirittura, un taglio del 92% di emissioni e il suo riciclo riduce l’utilizzo di energia del 95%, sempre rispetto al processo di produzione primario. Per quanto riguarda, invece, il rame l’uso degli scarti permette un taglio del 65% delle emissioni e il consumo di energia, con l’impiego di rame riciclato, è ridotto dell’85%.

I benefici del riciclo sembrano quindi essere elevati, ma, allo stesso tempo, rimangono lontani dall’essere davvero raggiungibili, soprattutto per quel che riguarda i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (e-waste). I volumi di questi rifiuti nel recente passato sono cresciuti esponenzialmente e nel 2022 hanno raggiunto i 65 milioni di tonnellate, l’82% in più rispetto al 2010, con un ulteriore incremento previsto fino a 82 milioni di tonnellate entro il 2030. Ad oggi il loro tasso di riciclo è solo l’1% circa ed è legato al loro vertiginoso aumento, tanto che la loro quantità oggi è addirittura cinque volte maggiore rispetto alla capacità di riciclare i componenti elettrici ed elettronici delle apparecchiature finite nell’immondizia. Questo comporta un mancato recupero di minerali rari e altre materie, quantificabile in circa 62 miliardi di dollari.

L’aumento dei consumi, e quindi delle vendite, è stato necessario per sostenere la costante ascesa dei tassi di produzione industriale, quasi un 25% in più rispetto al 2015, come dimostrato dai dati dell’Organizzazione per la produzione industriale delle Nazioni Unite, raccolti nel “World Manufacturing Production” del primo trimestre del 2024.

Proprio i settori a medio ed alto tasso tecnologico hanno contribuito maggiormente a questa continua crescita della produzione mondiale.

Numerose ricerche sembrano dimostrare come gli idrocarburi siano i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico

Negli anni sono state prodotte moltissime ricerche che hanno studiato la correlazione tra produzione industriale e quantità di gas serra emessi, dimostrando come gli idrocarburi, impiegati nei processi produttivi, sia a bassa intensità sia ad alta intensità energetica, siano i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico. Tuttavia, considerati i volumi di rifiuti prodotti, la ragione dell’aumento delle quantità di gas serra emessi non potrebbe essere anche legata al modello delle economie di scala, per cui la riduzione dei costi di produzione può essere ottenuta in seguito all’aumento della scala di produzione stessa?

Non è, forse, limitativo fissare dei target per l’abbattimento delle emissioni prodotte dal settore industriale proponendo esclusivamente l’implementazione di tecnologie “verdi”?

Cercare, da una parte, di diminuire il potenziale di inquinamento dei processi industriali, senza però ridimensionare la capacità produttiva stessa, ma, dall’altra parte, volendo promuovere l’aumento di produttività e competitività degli attori industriali, al fine di sostenere e promuovere la crescita economica, sembra essere “un gioco a somma nulla” e non è scontato che possa davvero rivelarsi la chiave per arrivare al traguardo di emissione nette zero entro il 2050.

Economista

Riccardo Fallico