L'accordo raggiunto al 28esimo vertice internazionale sul clima di Dubai (la cosiddetta COP28) il 13 dicembre scorso non può non deludere. È vero che per la prima volta nella storia di questi incontri, si parla di “transizione dai combustibili fossili”. Questo riferimento è stato praticamente “strappato” durante l'ultima notte di negoziati, grazie anche all'abile moderazione di un partecipante di lunga data a queste maratone, John Kerry, ex segretario di Stato di Barack Obama. Tuttavia, la “transizione” non significa “abbandono”: tale termine è stato completamente rifiutato, tra gli altri, dall’Arabia Saudita e dall’Iraq. Secondo la scienziata del clima, Valerie Masson-Delmotte, i dettagli degli impegni presi a Dubai, se rispettati, porterebbero a una riduzione del 5% delle emissioni di gas serra entro il 2030, mentre l'Accordo di Parigi sul clima del 2015 e l'impegno di mantenere il riscaldamento globale a +2°C, richiederebbero una riduzione delle emissioni di oltre il 40% in 6 anni. Tuttavia, queste valutazioni si basano sulla ferma convinzione che manterremo le nostre promesse. Va notato, che molte promesse fatte a Parigi nel 2015 non sono state mantenute.
Che ne sarà di quelle di Dubai?
Anche per quanto riguarda il finanziamento degli sforzi di adattamento alla crisi ambientale e di riduzione delle emissioni, i fini non sono allineati. Insieme ad altri ricercatori, nel 2022 ho calcolato che, per mantenere una ragionevole possibilità di non superare il limite di +2°C entro la fine del secolo, è necessario investire nella biforcazione ambientale tra il 6 e l’8 per cento del PIL globale ogni anno fino al 2035, ovvero circa 7.000 miliardi di euro all’anno. Questo conto, piuttosto salato, include i costi delle “riparazioni” necessarie dei danni, causati dal caos climatico (innalzamento del livello del mare, inondazioni, siccità, tifoni, tempeste…). In questo ambito, la COP28 ha promesso un totale di circa 700 milioni di dollari per integrare il fondo per finanziare tali riparazioni. Tuttavia, il costo reale dei danni annuali legati al riscaldamento globale promette di raggiungere rapidamente i 580 miliardi di dollari entro il 2030. Inoltre, la conferenza COP28 ha previsto di aumentare i finanziamenti annuali per l’adattamento ai cambiamenti climatici a 40 miliardi di dollari entro il 2025. Tuttavia, secondo le stime delle Nazioni Unite, si tratta ancora di una cifra dieci volte inferiore a quella che i Paesi più poveri dovrebbero ricevere.
Vale a dire che la comunità internazionale promette di stanziare da 10 a 1.000 volte meno denaro di quello necessario per risolvere il problema ambientale. Questa vigliaccheria è ancora più sorprendente perché le compagnie di assicurazione hanno accumulato abbastanza informazioni sull’impatto del cambiamento climatico, da poter fornire delle stime affidabili dei danni che si possono prevedere se continuiamo a voltarci dall’altra parte mentre il pianeta brucia. Ad esempio, la compagnia di riassicurazione Swiss Ré, con sede a Zurigo, ha pubblicato ancora nel 2021 un rapporto, che ha confermato le peggiori previsioni degli economisti sul cambiamento climatico. Qualora non dovessero essere prese delle misure serie per ridurre le emissioni, il PIL globale potrebbe perdere fino al 18% in un mondo in cui il riscaldamento potrebbe raggiungere i +3,2°C, e non alla fine del 21° secolo, ma in meno di trent’anni! La Cina sarà colpita in maniera particolarmente dura e perderà ogni anno un quarto del suo PIL, mentre gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito ne perderanno circa il 10% e l’UE l’11 per cento. Nel nostro continente, la Finlandia e la Svizzera saranno meno colpite (-6%) rispetto, ad esempio, alla Francia e alla Grecia (-13%) o Italia (-14%).
Queste perdite si avvicinano a quelle dei Paesi in guerra. La società di assicurazione svizzera ritiene che un’azione decisa avrebbe permesso di evitare una simile catastrofe. Se dovessimo realizzare in larga misura quanto è stato promesso a Dubai, il riscaldamento globale sarebbe limitato a +2°C per il 2050, mentre l’umanità perderebbe comunque circa l’11% della ricchezza prodotta nel mondo annualmente. Infine, se l’Accordo di Parigi fosse stato rispettato, avremmo perso solo il 4% della ricchezza prodotta dall’economia mondiale, che per molti Paesi avrebbe più o meno eguagliato l’impatto della pandemia COVID.
Allora perché non riusciamo ancora a prendere decisioni meno suicide? Dal punto di vista politico, gli Stati hanno assunto molti impegni seri, in particolare per raggiungere la neutralità netta delle emissioni di carbonio nelle loro economie entro il 2050. Poche nazioni però stanno effettivamente trovando dei mezzi per mantenere questa promessa, che può essere ancora realizzata. In Francia, ad esempio, in collaborazione con l’Institut Rousseau, ho pubblicato un rapporto che delinea un percorso realistico per arrivare alle emissioni zero di carbonio entro la metà del secolo. Il problema sta nelle industrie dei combustibili fossili, la cui intensa attività di lobbying è in gran parte responsabile dei deboli risultati della COP28.
Almeno 2.456 lobbisti dei combustibili fossili sono stati accreditati per partecipare al dibattito a Dubai. Si tratta di un numero record nella storia di questi vertici. C’è da stupirsi che la dichiarazione finale sia piena di verbosità tipiche del camuffamento “verde” della lobby dei combustibili fossili? Della delegazione francese faceva parte personalmente il presidente e l’amministratore delegato della compagnia Total.
Senza alcun dubbio la sfida principale della causa di trasformazione delle promesse, fatte dagli Stati in realtà, per non lasciare l’inferno alle nuove generazioni, è quella di liberare la politica dalle pressioni delle industrie estrattive, che sanno di avere i giorni contati.