Un articolo di: Alessandro Banfi

Le elezioni per l'Europa ma anche in Gran Bretagna e Francia, ma soprattutto i segnali che arrivano dagli Stati uniti, raccontano di una deriva pericolosa della politica occidentale che non riesce più a trovare un terreno comune fra le forze che si contrappongono

Alla democrazia di oggi manca l’idea di un terreno comune e condivisibile

Le elezioni in Inghilterra e in Francia, prima di esse già quelle europee, e poi la campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti hanno evidenziato una grande crisi delle democrazie occidentali. Crisi di leadership sicuramente, talvolta di affluenza al voto, spesso di esito incerto e instabile quanto ai risultati. Se Rishi Sunak e i Conservatori inglesi hanno perso dopo 14 anni di governo, si può forse dire che Marine Le Pen “non ha vinto” perché è incerto quale sarà il futuro della Francia. Allo stesso modo in Europa l’ondata del voto antisistema è a malapena contenuta dalla vecchia classe dirigente socialista-liberale, che però vuole mantenere Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Solo fra qualche settimana si capirà se l’operazione riuscirà. Ma il caso più clamoroso di incertezza e confusione è quello delle elezioni presidenziali americane, vero specchio della crisi del sistema occidentale. L’anziano presidente Joe Biden non vuole sottrarsi alla competizione per un altro mandato, mentre Donald Trump ha già detto che non riconoscerà l’esito del voto in caso di sconfitta.
Che cosa tiene insieme tutti questi fenomeni, a volte anche diversi? Sicuramente manca alla democrazia di oggi l’idea di un terreno comune e condivisibile in cui le parti che competono si possano comunque ritrovare. È il momento della “conventio ad excludendum”, per usare una perfetta espressione latina. Il principio che tiene insieme una parte politica è l’esclusione, la delegittimazione, la demonizzazione della parte avversaria. È una contaminazione bellicista della vita politica: l’altro è un nemico che non deve governare per nessuna ragione al mondo.

Le ragioni politiche e geo strategiche di questa nuova divisione radicale del mondo sono inquietanti e propongono un pericoloso scontro fra Occidente e Sud del mondo

Ritorna prepotente, per certi versi, l’ideologia degli anni Cinquanta: la logica della guerra fredda. Allora ad escludere ogni possibile agibilità democratica era il cosiddetto Fattore K, il comunismo dei Paesi del socialismo reale. Il mondo era diviso dal Muro di Berlino e di qua in Occidente i partiti comunisti non avrebbero mai potuto governare perché collegati al blocco sovietico. In realtà in Italia si cercò, col compromesso storico dei democristiani che vollero il PCI al governo Aldo Moro e Giulio Andreotti, di far saltare la “conventio”. Anche perché da parte sua il segretario generale del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer riconobbe di sentirsi più al sicuro “sotto l’ombrello della Nato”. Ma quell’esperimento durò pochi mesi: le Brigate Rosse rapirono e uccisero Moro, Andreotti si dimise. La Dc ristabilì la “conventio ad excludendum” contro il Pci nei primi anni Ottanta. In dieci anni il Muro di Berlino sarebbe caduto e con esso anche quella “conventio”. Fu un periodo che diede anni di prosperità all’Europa e di speranze di una diversa collaborazione Est-Ovest, compresa una possibile convergenza fra Nato e Russia.
Oggi invece siamo ripiombati, con criteri diversi, in una fase di estremismi e contrapposizioni. Emmanuel Macron ha bloccato l’ascesa al potere di Marine Le Pen, catalizzando nelle elezioni per il rinnovo dell’assemblea Nazionale un Fronte repubblicano, anche eterogeneo, pur di non far governare Il Rassemblement national. L’Europa dell’accordo socialisti-popolari-liberali ha tenuto fuori dalla porta, escludendolo a priori il gruppo dei Conservatori guidato da Giorgia Meloni. Donald Trump e Joe Biden (o chi prenderà il suo posto) sono radicalmente contrapposti al punto che il tycoon ha già detto, nell’ultimo drammatico confronto tv in cui l’avversario perdeva il filo del discorso, che non riconoscerà valida l’eventuale vittoria del rivale.
Ora, le ragioni politiche e geo strategiche di questa nuova divisione radicale del mondo sono inquietanti e propongono un pericoloso scontro fra Occidente e Sud del mondo, come tutti sappiamo. Ma ci sono anche profonde ragioni culturali se oggi la democrazia è dominata da questa drammatica divisione in due, fra chi non si riconosce reciprocamente. Per un magazine che si chiama Pluralia va detto che ci troviamo di fronte proprio alla fine della democrazia contemporanea intesa come pluralismo, pluralità di posizioni e punti di vista che alla fine dovrebbero concorrere allo stesso bene comune.

L’uomo democratico al tempo stesso porta a compimento, ma anche consuma e distrugge l’assetto democratico

C’è ad esempio un grande personaggio, il teologo Elmar Salmann, monaco benedettino tedesco dell’abbazia di Gerleve in Westfalia, che ha messo a fuoco molto bene una delle ragioni di questa profonda crisi della democrazia. In un’intervista all’Osservatore Romano, dal significativo titolo “La tragedia dell’uomo democratico”, che trovate qui, Salmann dice fra l’altro: “Mi sembra che siamo giunti ad un capolinea, ad una soglia, ad un limite dello stile di vita che l’uomo ha assunto negli ultimi decenni. È lo stile di quello che io definisco l’“uomo democratico”, che non è una mera forma politica, ma l’indole intrinseca allo stile dell’uomo contemporaneo. L’uomo democratico è colui che democratizza tutto, che, rappresentando una costellazione di minoranze e relativi diritti, finisce all’opposto con il minare le basi della democrazia, come forma organizzata del vivere civile. Così, ad esempio, i partiti si (con)fondono nei movimenti, come insegnano le esperienze in Italia di Berlusconi o dei Cinque Stelle, in Francia di Macron e En Marche, Podemos in Spagna, e i Grünen o l’estrema destra da noi in Germania. L’altra faccia di questa fluidità organizzativa è l’emersione degli “uomini forti”: Trump, Erdogan, Morawiecki, Orban, Xi Ping, solo per citarne alcuni. Cioè l’uomo democratico al tempo stesso porta a compimento, ma anche consuma e distrugge l’assetto democratico. Negli anni ’90 del secolo scorso si credeva che la democrazia dei diritti fosse la carta vincente in politica, ma questa idea ha soltanto generato una cultura improntata al manicheismo, che ha danneggiato la democrazia. E non solo essa, perché questo manicheismo sorto tra i partiti e nei partiti, si è poi esteso alla cultura e alla società provocando quella polarizzazione globale che è la vera cifra dei nostri tempi. Un manicheismo, e una polarizzazione, che ha contagiato anche i vescovi e la Chiesa. Non è un caso che la tendenza al totalitarismo pervada gran parte del mondo, indifferentemente dalle diverse condizioni storiche e sociali. Mi sorprende — e mi conferma — il caso di Israele, che è paradigmatico di questo fenomeno: l’unica democrazia del Medio Oriente, che eppure rischia l’implosione dinanzi alle spinte congiunte della polarizzazione e dell’autoritarismo. Siamo di fronte ad un fenomeno planetario, che, come tale, dovrebbe interpellarci seriamente. E chiederci come l’uomo democratico possa invertire la prospettiva e ricostruire una forma istituzionale basata sulla rappresentatività”.
Sono molti gli spunti che la riflessione di Salmann offre ma quello che più colpisce è la definizione di “democrazia manichea”. C’è qualcosa nella civiltà digitale, quella di Google e dei social, che spinge inesorabilmente a questo manicheismo. Constatazione financo banale è infatti che al dialogo, nella vita pubblica, si è ampiamente sostituito l’insulto, la contrapposizione, l’odio verbale. L’altro non è più in una dialettica che contribuisce ad una democrazia plurale. Ma è il nemico. E il nemico, nella sua astrazione di non persona, di simbolo, va annientato e distrutto.

La democrazia plurale è quella che salva tutti, che mette al centro la persona, che destruttura naturalmente le ideologie che dividono il campo in amici e nemici

Anche Papa Francesco, in visita a Trieste per le Settimane sociali dei cattolici, ha parlato recentemente della «crisi della democrazia come un cuore ferito». Aggiungendo: “Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore ‘infartuato’, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questo è la cultura dello scarto. Il potere diventa autoreferenziale – è una malattia brutta questa –, incapace di ascolto e di servizio alle persone. Aldo Moro ricordava che ‘uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità’. La parola stessa ‘democrazia’ non coincide semplicemente con il voto del popolo; nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va ‘allenata’, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche”.
Qui il Papa aggiunge una profonda ragione anche sociale all’impoverimento delle democrazie occidentali: la cultura dello scarto. Diceva il grande sociologo Zygmunt Bauman in uno dei suoi preziosi saggi: “La vita della società liquida è sempre sospesa fra le gioie del consumo e l’orrore degli enormi mucchi di spazzatura da smaltire”. L’enorme cumulo di rifiuti è la grande metafora anche della fatica che fa oggi la democrazia nell’era del consumismo: “scarta” le persone, le loro esigenze, le loro debolezze.
La democrazia plurale è quella che salva tutti, che mette al centro la persona, che destruttura naturalmente le ideologie che dividono il campo in amici e nemici. Difficile dire se in tempo di guerra, che è anche sempre guerra civile, ci sia ancora speranza per la democrazia nella Terra del XXI secolo.

Giornalista, Autore tv

Alessandro Banfi