Guida ai problemi dell’economia internazionale

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Un articolo di: Riccardo Fallico

L'inflazione e le banche centrali giocano a tiramolla, mentre l'economia globale soffre per l'alto costo del denaro...

Malgrado tutti gli sforzi delle banche centrali del mondo, anche quest’anno l’inflazione mondiale nel 2024 rimarrà intono all’inaccettabile 6%

Le politiche monetarie espansive, approvate dopo la crisi finanziaria del 2008, e le sanzioni imposte alla Russia dopo l’inizio dell’operazione speciale nel Donbass hanno portato ad un repentino innalzamento dei prezzi al consumo in tutto il mondo. L’inflazione mondiale, nel corso di un biennio, è passata dal 3,2% del 2020 al 8,8% del 2022. Le banche centrali mondiali, per far fronte all’impennata dei prezzi, hanno varato misure restrittive di politica monetaria, aumentando i tassi di interesse e contraendo la liquidità presente sul mercato. Ciononostante, queste manovre sono state mal digerite dai mercati, soprattutto da quelli dei Paesi economicamente più avanzati, che per troppo a lungo erano stati abituati a tassi pressoché nulli e a liquidità in sovrabbondanza.

Gli analisti, percependo l’insofferenza dei mercati finanziari per l’alto costo del denaro, avevano preventivato per il 2024 un inversione di rotta delle politiche monetarie nazionali, convinzione sostenuta dal rallentamento dei ritmi di crescita dell’inflazione. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (IMF), infatti, l’inflazione mondiale nel 2024 sarebbe dovuta scendere al 5,2%, un punto e mezzo in meno rispetto al 6,8% registrato nel 2023. Tuttavia, le ultime statistiche aggiornate dello stesso IMF indicano che l’inflazione nel 2024 rimane intorno al 6%, portando ad una revisione delle aspettative sulla sua diminuzione tanto per l’anno in corso quanto per gli anni a venire. Non bisogna inoltre tralasciare di menzionare come l’attuale livello di inflazione rimanga ancora più alto rispetto al valore medio registrato nel ventennio 2000-2021.

Le principali banche centrali nel corso del 2024 hanno mantenuto posizioni “attendiste” lasciando i propri tassi di riferimento invariati, o, come nel caso della Banca Centrale Europea (ECB) e della Banca centrale Inglese (BOE) effettuando solo un lieve taglio dei loro tassi, 0,25%, oppure tagliando in maniera un po’ più decisa, come la  Banca Centrale Svizzera (SCB), dello 0,5%. In controtendenza, invece, sembra essere la Banca Centrale Russa (CBR), che a luglio aveva addirittura portato il suo tasso al 18%, il massimo da marzo del 2022, lasciando poi, attraverso le dichiarazioni della sua governatrice, Elvira Nabiulina, prospettare un periodo di alti tassi prolungato, necessario al fine di tenere l’inflazione entro il 6,5%-7% nel 2024 e abbassarla al 4-4,5% nel 2025.

In questo contesto di incertezza sull’effettivo andamento dei prezzi al consumo, l’attenzione è puntata principalmente sulle decisioni della Federal Reserve statunitense (FED). Nel 2024 ad ogni riunione della FED i mercati finanziari mondiali hanno sperato in un taglio del tasso di interesse, che dal luglio del 2023 è rimasto al 5,25-5,5%. Il governatore della FED, Jerome Powell, in passato ha più volte dichiarato che, prima di procedere a tagliare il tasso di interesse, la banca centrale statunitense necessiti di prove più tangibili a conferma che l’inflazione stia davvero tornando entro il target fissato del 2% di crescita annuo. Secondo i dati di fine giugno 2024, tuttavia, il tasso di crescita dell’inflazione statunitense era ancora alto, intorno al 3%, sebbene fosse in costante calo rispetto ai primi mesi dell’anno.

La staticità della FED danneggia il sistema finanziario nazionale statunitense, che non sembra essere uscito dalla crisi bancaria del marzo 2023

Alla fine del 2023, gli analisti di mercato dibattevano sui possibili destini dell’economia statunitense, per la quale si prospettava o un atterraggio “duro” (hard landing) o uno “morbido” (soft landing), in relazione alle scelte di politica monetaria, restrittiva o espansiva, che la FED avrebbe effettuato. Dopo che nella prima metà del 2024 l’atteso taglio dei tassi di interesse non si era ancora realizzato, è cominciato ad essere dibattuto anche un terzo scenario (no landing), ovvero una “cristallizzazione” della situazione attuale, in cui l’inflazione rimanga più elevata rispetto target fissato e i tassi di interesse restino ai livelli attuali ancora per un periodo di tempo imprecisato.

Indipendentemente dalle future decisioni, economiche, finanziarie o politiche, visto l’approssimarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, che la FED potrà assumere, è interessante analizzare come la staticità della banca centrale stia, in ultima analisi, danneggiando il sistema finanziario nazionale statunitense, che non sembra essere davvero uscito dalla crisi bancaria scoppiata nel marzo del 2023. Le ultime statistiche sullo stato di salute delle banche commerciali degli Stati Uniti, infatti, non dipingono un quadro incoraggiante. Secondo i dati del Federal Deposit Insurance Corp (FDIC), agenzia indipendente creata dal Congresso statunitense per l’assicurazione dei depositi dei clienti e per la supervisione della solvibilità degli istituti finanziari, le banche statunitensi nel primo trimestre di quest’anno avevano 516 miliardi di perdite non realizzate sul valore di mercato delle obbligazioni detenute a bilancio. Bank of America, da sola, aveva perdite non realizzate per 110 miliardi di dollari. Sebbene il problema di queste perdite sia solo “teorico”, dal momento che le banche possono mantenere le obbligazioni fino a scadenza e quindi recuperare il totale del loro valore nominale, nel caso si presentasse un problema di liquidità, la necessità di dover raccogliere capitale in tempi brevi potrebbe costringere le banche a vendere questi titoli a valore di mercato, dovendo, quindi, registrare a bilancio le perdite tra valore nominale e valore di mercato delle stesse obbligazioni. Questo non è altro che il problema che ha dovuto affrontare, senza successo, la Silicon Valley Bank (SVB) nel marzo del 2023.

Jerome Powell

Al fine di evitare il ripetersi di casi come quello della SVB, nel 2023 la FED aveva istituito il Bank Term Funding Program (BTFP), attraverso il quale le banche con necessità di raccogliere fondi per fronteggiare una contrazione di liquidità avrebbero potuto prendere a prestito denaro dalla FED, fornendo come garanzia le obbligazioni detenute al loro valore nominale, in modo da non dover registrare alcuna perdita in relazione alle fluttuazioni del loro valore di mercato. Il BTFP, che altro non era che una manovra di quantative easing (QE) mascherata, è stato sospeso a marzo del 2024, dopo che erano stati elargiti 164 miliardi di dollari. L’interruzione dell’immissione di liquidità ha fatto riportare le attenzioni degli operatori di mercato sulle decisioni della FED in materia di tasso di interesse, lasciando senza risposta, tuttavia, molte domande sull’esigenza di liquidità delle banche statunitensi. Il BTFP ha, infatti, mostrato una volta di più come il sistema finanziario statunitense non solo sia bisognoso, ma sia diventato dipendente delle iniezioni di liquidità della FED, venuta invece a contrarsi da quando la banca centrale statunitense, nel giugno del 2022, ha iniziato il ridimensionamento del suo portafoglio attraverso il quantitative tightening (QT).

Nel giugno 2024 la FED ha messo in luce un crescente rischio di insolvenza bancaria, legato al deterioramento del portafoglio crediti

Altre notizie poco convincenti sulla salute del sistema bancario sono arrivate dall’ultimo stress test della FED, pubblicato a giugno del 2024. Sebbene, da un lato, le 31 banche coinvolte, tutte con attivi superiori ai 100 miliardi di dollari, siano potenzialmente in grado di assorbire perdite fino a 685 miliardi di dollari in caso di un crollo dei prezzi immobiliari e di un repentino aumento della disoccupazione, dall’altro, il rapporto della FED ha messo in luce un crescente rischio di insolvenza, legato al deterioramento del portafoglio crediti, non solo industriali, ma anche sulle carte di credito. Di pari passo, poi, è stato rilevato un deterioramento dei margini operativi, accentuato ulteriormente dalla riduzione dei volumi dei depositi, fattore, che di per sé, fa aumentare il rischio di liquidità delle banche. Secondo le stime di S&P Global nel solo 2023 le banche statunitensi hanno visto diminuire i loro depositi di 871 miliardi di dollari. Il secondo trimestre del 2024 ha mostrato come la fuoriuscita di capitale dai depositi sia continuata, colpendo in misura maggiore le banche regionali.

Il FDCI ha gettato, poi, ulteriori ombre sulla salute del sistema statunitense, poiché nel suo rapporto del primo trimestre del 2024 ha indicato 63 banche, senza tuttavia indicare nomi, come “problematiche”, un numero in aumento rispetto a quello, 52, della fine del 2023. La pressione non sembra quindi allentarsi, e le banche regionali rimangono maggiormente a rischio. Uno studio della società di consulenza Klaros Group, che ha analizzato circa 4000 banche statunitensi, ha evidenziato che 282 banche siano a rischio di insolvenza a causa del deterioramento del portafoglio dei prestiti per immobili commerciali e dei tassi di interesse troppo alti. A marzo del 2024 la New York Community Bancorp ha necessitato un’iniezione di 1 miliardo di dollari dopo aver dichiarato perdite nette per 252 milioni di dollari, oltre a perdite sui crediti per 552 milioni di dollari, legati nella maggior parte proprio ai prestiti per immobili commerciali. Il rischio di una nuova ondata di fallimenti, perciò, non sembra affatto sopito e, dopo il fallimento ad aprile del 2024 della Republic First Bank, che deteneva attivi per circa 6 miliardi di dollari, si sono susseguite voci di altri possibili bancarotte nel settore finanziario statunitense. Le previsioni della banca di investimento giapponese Nomura sono allarmanti, prospettando almeno 50 fallimenti nei prossimi anni. Anche la società di investimento Pacific Investment Management (PIMCO) a metà del 2024, attraverso il suo managing director John Murray, aveva avvertito che l’eventualità di nuovi fallimenti era molto elevata, soprattutto per le banche regionali, proprio a causa della forte concentrazione di crediti immobiliari ad alto rischio nei bilanci degli istituti finanziari.

L’11 settembre 2024 sono stati resi noti i dati sull’inflazione statunitense per il periodo di agosto e, nonostante si prevedesse un ulteriore potenziale rallentamento, il Dipartimento del Lavoro ha invece registrato un aumento dello 0,3%, il massimo in quattro mesi, raggiungendo il 3,2%. Il 17 e 18 settembre sarà, poi, il turno della FED di rendere nota la sua decisione sul tasso di interesse. Jerome Powell il 23 di agosto aveva dichiarato che era giunto il momento di modificare la politica monetaria, ammiccando ad un taglio dei tassi, poiché la FED vedeva i segnali necessari che indicavano la crescita dell’inflazione rientrare nel target del 2% annuo. Il governatore della banca centrale aveva, però, anche ammesso di dover soppesare un altro fattore, determinante, per la futura decisione per il tasso di interesse, ovvero la salute del mercato del lavoro degli Stati Uniti, che nell’ultimo periodo aveva registrato una contrazione, in linea con una diminuzione dell’inflazione. Se a queste dichiarazioni seguiranno i fatti vorrà dire che la FED avrà deciso di soccorrere e proteggere l’economia e il sistema finanziario statunitensi, non volendo scommettere, o sperare, sulla resistenza del sistema bancario di sostenere un costo del denaro più alto di quanto, nella realtà dei fatti, si possa permettere, ma, allo stesso tempo, potrebbe dare un ulteriore impulso alla crescita dei prezzi al consumo.

Economista

Riccardo Fallico