Il 2025 tra l'altro metterà in luce quale sarà il ruolo dell’Europa sullo scacchiere mondiale.
Trump distruggerà il dollaro, la Cina emetterà 7 trilioni di dollari per stimolare la sua economia e l’elettrificazione ucciderà l’OPEC. Queste sono solo alcune delle previsioni “scandalose” che SAXO Bank, come ogni dicembre, ha pubblicato per l’anno che verrà. Gli eventi del recente passato ci hanno dimostrato, però, che fare previsioni può essere un vero e proprio gioco d’azzardo, poiché l’incertezza, tanto geopolitica quanto economica e finanziaria, lascia aperti scenari, che ad oggi possono solo sembrare frutto della fantasia. Molti si aggrappano alla speranza, o alla mera illusione, che dopo l’insediamento del presidente statunitense molte nubi, che ora incombono sul futuro, possano essere spazzate via, ma questo dipenderà da quante, e soprattutto quali, promesse fatte in campagna elettorale saranno davvero mantenute dalla nuova amministrazione degli Stati Uniti.
In Europa la situazione politica sembra degradare repentinamente, a causa delle crescenti problematiche economiche interne, che ogni Paese si trova a dover affrontare.
A gettare ancora più ombre, come se le crisi geopolitiche già in corso non fossero sufficienti, sul finire di questo 2024 si stanno consumando diverse crisi politiche. In Siria, il presidente, dopo la marcia lampo e incontrastata delle forze ribelli, è scappato da Damasco, lasciando un Paese diviso, con molte incognite sulla sua integrità territoriale e, più in generale, sulla stabilità del Medio Oriente, viste le rivendicazioni israeliane e turche nella regione. In Corea del Sud il presidente in carica, in una sola notte, prima ha dichiarato la legge marziale e ha fatto assaltare il parlamento dalle forze speciali, poi, con una repentina marcia indietro a causa del voto unanime del parlamento stesso, ha ritirato la sua decisione e ora si trova implicato in un processo di impeachment, che potrebbe portare ad uno stallo della vita politica coreana, con la possibilità di ricadute anche sull’attività economica del Paese. In Europa la situazione politica sembra degradare repentinamente, a causa delle crescenti problematiche economiche interne, che ogni Paese si trova a dover affrontare. In Francia, a soli tre mesi dalle elezioni, il presidente è stato costretto a cambiare il primo ministro, il quarto in un anno, record negativo per il Paese, dopo il voto di sfiducia del parlamento, motivato delle divergenze relative al bilancio nazionale. In Germania, a causa delle differenti vedute in materia economica all’interno della coalizione di governo, sfociate nel conseguente voto di sfiducia del parlamento al primo ministro, si andrà a elezioni anticipate, le prime degli ultimi due decenni. Dall’altra parte dello stretto della Manica, anche i cittadini britannici negli ultimi anni hanno sofferto un’incertezza politica mai sperimentata prima, visto il succedersi di ben quattro primi ministri in cinque anni, tutti incapaci di proporre soluzioni efficaci ai problemi economici del Paese. Anche sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico la situazione politica presenta diverse incognite. In Canada, in seguito alle dimissioni del ministro delle finanze, hanno iniziato a circolare voci, sempre più insistenti, ma ancora non confermate, che il premier canadese sia intenzionato a lasciare l’incarico e portare il Paese a elezioni anticipate, aumentando le domande sul futuro politico ed economico della nazione. Negli Stati Uniti, se da una parte cresce l’attenzione di tutto il mondo sulle future scelte politiche ed economiche del neoeletto presidente, dall’altra si assiste ad un tentativo dell’amministrazione uscente di lasciare in eredità più problemi di quanti non se ne fossero già accumulati prima delle elezioni del novembre del 2024, rendendo più complicato il lavoro del nuovo esecutivo.
Alla base dell’instabilità politica vi sono, quindi, soprattutto problemi economici irrisolti e che nel futuro potrebbero addirittura acuirsi.
Alla base dell’instabilità politica vi sono, quindi, soprattutto problemi economici irrisolti e che nel futuro potrebbero addirittura acuirsi. Nonostante il clima politico delle varie nazioni incerto e il protrarsi dei conflitti geopolitici, molti analisti prevedono che nel 2025 il mondo non si troverà ad affrontare una recessione, grazie ad un miglioramento del clima finanziario, favorito dal ciclo di tagli del costo del denaro attuato da molte banche centrali mondiali e in primo luogo dalla Federal Reserve statunitense (FED). La diminuzione dei tassi di riferimento, soprattutto sul dollaro, potrebbe, infatti, non solo sostenere, ma anche sospingere i mercati finanziari, mettendo un freno al declino economico di molti Paesi. L’inversione di politica monetaria e il conseguente taglio dei tassi sono stati giustificati dalle banche centrali con il rallentamento dell’inflazione, che, tuttavia, dopo gli interventi delle banche centrali, sembra nuovamente in crescita. Negli Stati Uniti l’inflazione è passata dal 2,4% a settembre 2024 al 2,7% a novembre, mentre in Europa si è passati dall’1,7% di settembre del 2024 al 2,3% di novembre. Il nuovo aumento dell’inflazione potrebbe portare le banche centrali a rivedere, già nel 2025, le proprie scelte di politica monetaria, aumentando l’incertezza su possibili futuri tagli dei tassi di interesse.
La volontà di riprendere la lotta contro l’inflazione, tuttavia, potrebbe non essere seguita dalla decisione di ritornare ad una politica monetaria restrittiva, poiché i mercati finanziari, soprattutto quello statunitense, sono diventati dipendenti da liquidità a basso costo. Nel corso del 2024 si sono rincorse voci di una nuova possibile ondata di fallimenti delle banche regionali statunitensi, che la FED sembra in parte riuscita a evitare, o quantomeno a posticipare, grazie all’introduzione di strumenti come il Bank Term Funding Program (BTFP), attraverso il quale le banche potevano raccogliere liquidità impegnando le obbligazioni del tesoro statunitense in loro possesso al loro prezzo nominale e non a quello, inferiore, di mercato. La salute del sistema bancario degli Stati Uniti, ciononostante, rimane sotto osservazione: a ottobre 2024 le banche statunitensi hanno registrato fuoriuscite dai propri depositi per 133 miliardi di dollari su base annua non destagionalizzata.
Per i mercati finanziari si può prospettare un aumento della volatilità, mentre la continua espansione del debito pubblico potrebbe rappresentare un freno per l’economia mondiale.
Il rischio di liquidità rimane così elevato, che i volumi delle operazioni di reverse REPO (n.d.r. contratti pronti contro termine attraverso cui un operatore acquista a pronti dei titoli, cedendo liquidità, e si impegna contestualmente a rivenderli in una data futura a un prezzo prestabilito che incorpora un tasso di remunerazione fissato al momento della stipula del contratto) sono crollati, contraendosi fino ai livelli del maggio del 2021.
Nonostante l’iniezione di liquidità e il taglio dei tassi di interesse, le manovre della FED non sembrano essere sufficienti per aiutare il sistema bancario, o, tanto meno, alleviare i problemi di budget del Dipartimento del tesoro statunitense. Il taglio del tasso di riferimento sul dollaro non ha comportato una riduzione dei tassi sulle obbligazioni del tesoro statunitense, che sono più alti rispetto al settembre 2024 e, addirittura, rispetto all’inizio dell’anno. In questo contesto il Dipartimento del tesoro, per il solo 2024, dovrà sborsare circa 900 miliardi di dollari in interessi maturati sul proprio debito, ovvero tre volte la somma pagata nel 2020. L’esplosione del volume degli interessi è anche il riflesso della continua espansione della massa del debito pubblico statunitense, che, nel solo 2024, è aumentato di altri 2 trilioni di dollari, raggiungendo così il totale di 36 trilioni di dollari. Il problema principale è la mancanza di controllo dell’espansione della massa stessa del debito, che, a meno di drastici interventi nel taglio delle spese governative, potrebbe crescere in maniera incontrollata anche nel 2025. Gli enormi volumi di debito accumulato, tuttavia, non sono un problema solo degli Stati Uniti, anzi, sono e rimarranno un problema globale. Entro la fine del 2024, infatti, il debito mondiale, pubblico e privato, arriverà a toccare i 323 trilioni di dollari e le previsioni, non solo per il 2025, parlano di una sua ulteriore espansione legata all’emissione di nuovo debito governativo da parte di tutti quei Paesi, che saranno costretti a ripianare il deficit del proprio bilancio nazionale. Entro il 2028 il debito sovrano potrebbe toccare i 130 trilioni di dollari, il 34% in più rispetto ai 97 trilioni di dollari del 2024, aumentando, così, il rischio di nuove turbolenze del mercato obbligazionario, che si troverà costretto ad assorbire i nuovi volumi di debito pubblico emessi.
Se, quindi, per i mercati finanziari si può prospettare un aumento della volatilità, la continua espansione del debito pubblico potrebbe rappresentare un freno per l’economia mondiale, che già a partire dalla seconda metà del 2024 ha iniziato a mandare segnali di debolezza e instabilità. Molte aziende hanno già annunciato tagli e licenziamenti: Boeing ha licenziato il 10% dei suoi impiegati, Tesla il 10%, Citigroup l’8%, Microsoft l’8%, Deutsche Bank il 4%, BlackRock il 3%, Nike il 2%, Morgan Stanley l’1%. Negli Stati Uniti il settore più colpito è stato quello tecnologico, che ha registrato il taglio di circa 150 mila posti di lavoro. Il 2024 in Europa non è stato migliore, poiché diverse società, Banco Santander, Unicredit, Equinor, Thyssenkrupp, Auchan, Airbus, Unilever, per citarne alcune, a fronte di un’ulteriore contrazione della domanda e di un aumento dei già alti costi di produzione, hanno dichiarato di voler tagliare migliaia di posti di lavoro, stipendi e ore di lavoro per contenere le spese. Il settore più colpito è quello automobilistico, che tutt’oggi, insieme al suo indotto, sembra stia andando incontro ad una vera e propria crisi. Nella seconda metà del 2024 la casa automobilistica Volkswagen (VW), che non aveva mai deciso un ridimensionamento della sua produzione, ha annunciato la chiusura di due siti produttivi in Germania, aumentati poi a sei, mettendo in discussione decine di migliaia di posti di lavoro. VW non è la sola società nel settore ad aver effettuato tagli al personale: Stellantis, Bosch, Ford, Michelin, Schaeffler, Daimler, Audi, BMW hanno già dichiarato di voler ridurre la propria forza lavoro in Europa. Le case automobilistiche europee stanno soccombendo alla concorrenza dei concorrenti cinesi, che, nel giro degli ultimi 5 anni sono diventati i maggiori esportatori di auto al mondo, sorpassando quelli tedeschi. Le difficoltà del settore automobilistico attestano come l’economia europea sia davvero in affanno, poiché la “locomotiva” del Continente, ovvero la Germania, non è più in grado di trainare economicamente il resto dell’Europa. La produzione industriale tedesca è ancora del 10% inferiore ai suoi livelli del 2019 e non sembra in grado di riprendersi, dal momento che, secondo uno studio dell’Institute of the German Economy, il 40% delle aziende tedesche ha dichiarato di prevedere tagli al personale per il 2025.
La Germania, nell’attuale contesto politico ed economico, è diventata il simbolo della “deindustrializzazione” europea, processo per il quale le industrie si trasferiscono nei Paesi, dove i minori costi di produzione, e in particolar modo di quelli energetici, permettono di mantenere la propria competitività. La spinta più forte alla deindustrializzazione è data dalle miopi scelte in materia di sicurezza energetica nazionale. Il governo tedesco, infatti, non sembra disposto a rivedere le sue politiche energetiche, nonostante i cambiamenti che si susseguono. L’ottuso rifiuto di riconsiderare la propria posizione sul nucleare, per esempio, è in netto contrasto con il rinnovato interesse a livello globale verso questa fonte di approvvigionamento di elettricità. L’intransigente volontà di comprare il più costoso gas liquefatto (LNG) degli Stati Uniti invece del più economico gas russo contrasta, poi, con la ferma austerità fiscale tedesca per il mantenimento del bilancio statale. Le ripercussioni di queste errate scelte in materia energetica hanno già cominciato a manifestarsi: a metà dicembre del 2024 il prezzo dell’elettricità sul mercato spot in Germania è schizzato a 936 euro per MW/h, il massimo rispetto anche al picco del 2022, tanto da spingere la Svezia a richiedere di dividere il mercato elettrico tedesco in zone territoriali per evitare future impennate di prezzo e portare la Norvegia a considerare limitazioni sull’export di energia elettrica.
Tra i Paesi europei che devono affrontare nuovi, e vecchi, problemi relativi alla sicurezza energetica non vi è solo la Germania. La volontà dei burocrati europei di promuovere a tutti i costi la transizione energetica e l’elettrificazione del Continente stanno comportando più problemi di quanti dovrebbero risolverne. I prezzi dell’elettricità nei mercati europei sono in rapido aumento, poiché, non solo la generazione da fonti rinnovabili si sta dimostrando insicura e intermittente, ma la diminuzione della produzione elettrica da gas naturale non è stata compensata dall’aumento della generazione da fonti “verdi”. Per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Commissione Europea per il 2030 e per il 2050, l’Europa dovrebbe investire circa 1,6 trilioni di dollari all’anno, mentre gli investimenti effettuati e pianificati non superano i 400 miliardi di dollari all’anno, confermando, così, l’impossibilità di realizzare la transizione energetica nelle tempistiche stabilite.
La sicurezza energetica europea sarà ancora oggetto di discussione, visto il rischio di volatilità e di un ulteriore possibile aumento dei prezzi del gas. Il 31 dicembre 2024 scadrà, infatti, l’accordo per il transito di gas russo dall’Ucraina e la volontà di quest’ultima di non prolungare il contratto con la Russia costringerà i Paesi europei a sostituire i rimanenti volumi di gas russo, circa 15 milioni di cubi metri nel 2023, con nuove forniture di LNG, che potrebbero essere soggette ad un premio più elevato per il loro acquisto. L’ulteriore innalzamento dei costi delle forniture energetiche potrebbe essere inoltre accompagnato dall’imposizione di nuove tariffe e dazi da parte della nuova amministrazione statunitense. Secondo un’analisi di GoldmanSachs, anche più delle tariffe stesse, sarà l’incertezza relativa alle relazioni e agli scambi commerciali che penalizzerà maggiormente l’Europa, riducendo il PIL di almeno uno 0,5%. Nonostante ciò, la banca statunitense prevede che l’Europa possa evitare la recessione, sebbene le stesse previsioni sul PIL di Germania e Francia indichino una contrazione, rispettivamente, dello 0,3% e dello 0,7%. Ben più eloquenti, però, dei dati sul PIL sono le cifre sulla produttività europea, che, dopo la flessione del 2023, -1,1%, nel 2024 non è ritornata a crescere, ampliando così il divario con gli Stati Uniti, che hanno, invece, registrato un aumento del 2,6% a fine 2023 e del 2,2% nel terzo trimestre del 2024, tanto da porsi l’interrogativo se l’Europa non sia, a questo punto, davvero in profonda crisi di competitività.
Il 2025, quindi, ma più in generale il futuro a medio termine, metterà in luce quale sarà il ruolo dell’Europa sullo scacchiere mondiale, poiché i Paesi europei potrebbero vedere ridimensionata la loro influenza, correndo il rischio di diventare un attore irrilevante sia a livello finanziario e industriale, perché sopraffatti da Stati Uniti e Cina, sia a livello geopolitico, poiché i conflitti, presenti e futuri, saranno regolati senza nessuna consultazione né con i capi di Stato europei né tanto meno con i dirigenti politici dell’Unione Europea.