Guida ai problemi dell’economia internazionale

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Un articolo di: Riccardo Fallico

Da anni il settore energetico russo si trova al centro delle sanzioni imposte dai Paesi del G7, dell’Unione Europea e dei loro alleati

Il settore del petrolio è stato quello colpito in maniera maggiore

Come nel 2014 dopo il referendum per la riunificazione della Crimea alla Federazione Russa, anche nel 2022, in seguito all’inizio dell’operazione speciale in Donbass, il settore energetico russo è stato al centro delle sanzioni imposte dai Paesi del G7, dell’Unione Europea e dei loro alleati. In linea con il pensiero del senatore McCaine, secondo il quale la Russia altro non è che “una stazione di benzina mascherata da Paese”, il Global North riteneva che, colpendo l’industria energetica, l’economia russa sarebbe crollata, data la sua presunta totale dipendenza dagli introiti sulle vendite degli idrocarburi. Di certo il ruolo della Russia nel settore energetico a livello mondiale è sempre stato di primo piano e prima dell’inizio del conflitto la Russia era il secondo produttore, dopo gli Stati Uniti, e il primo esportatore di gas. La Russia era, inoltre, il terzo produttore e il secondo esportatore di petrolio al mondo, dietro solo agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita. A fine del 2021, i principali acquirenti di gas e di petrolio russo erano i Paesi di tutta l’Europa. Il settore del petrolio è stato quello colpito in maniera maggiore, dal momento che sono stati creati e introdotti ulteriori vincoli logistici alla sua commercializzazione. Nonostante l’ostilità del Global North, non è così immediato comprendere in che misura, nel corso di questi due anni, il settore petrolifero russo abbia sofferto. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha mostrato come l’export di petrolio russo (Urals), infatti, non sia crollato, a seguito di tutte le sanzioni applicate, indirizzandosi su altri acquirenti. Gradualmente, la Russia è riuscita a riformare, anche offrendo un sostanzioso sconto rispetto al prezzo di riferimento del Brent, il suo portafoglio di clienti sostituendo completamente le quote di export, che prima erano destinate a Europa, Stati Uniti e Gran Bretagna.

Fallite le politiche sanzionatorie i Paesi del G7 e dell’Unione Europea hanno concordato nel 2022 di fissare a livello globale un “tetto” al prezzo del petrolio russo

A dicembre del 2022, consci del potenziale fallimento delle proprie politiche sanzionatorie, i Paesi del G7 e dell’Unione Europea concordarono di fissare a livello globale un “tetto” al prezzo del petrolio russo: onde evitare a loro volta sanzioni, i potenziali acquirenti non avrebbero dovuto pagare più di 60 dollari al barile per l’Urals. L’introduzione di questo massimale ha comportato un nuovo aumento dello sconto dell’Urals rispetto al Brent, che tuttavia non ha mai raggiunto i massimi del giugno del 2022 di 34,85 dollari al barile. Sebbene ad oggi il differenziale di prezzo tra il Brent e l’Urals è di circa 14 dollari al barile dall’inizio del 2024 la quotazione dell’Urals è rimasta costantemente sopra i 60 dollari al barile sostenuta dalle quotazioni tanto del WTI quanto del Brent, che hanno ripreso ad aumentare. Ad aprile del 2024 il prezzo dell’Urals si era attestato intorno ai 75 dollari al barile. Ulteriori restrizioni erano state imposte anche al trasporto via mare del petrolio russo, ma i suoi volumi sono sempre rimasti sopra i 3 milioni di barili al giorno e a marzo del 2024 solo un 25% dei quasi 4 milioni di barili esportati giornalmente è stato venduto entro il tetto massimo dei 60 dollari al barile. Secondo una stima approssimativa, i mancati ricavi del settore energetico russo del petrolio e del gas nel solo 2023 ammonterebbero a circa 100 miliardi, di cui oltre 34 miliardi di dollari in mancati introiti dalle vendite di petrolio. È tuttavia da rilevare che con il prezzo degli Urals sopra i 70 dollari e il cambio del dollaro superiore ai 90 rubli il budget del governo russo non sembra “soffrire” in maniera drammatica, rendendo così inefficaci le sanzioni imposte. Secondo i dati elaborati da Bloomberg ad aprile del 2024 le entrate dalle vendite di petrolio sono addirittura raddoppiate rispetto allo stesso mese del 2023 e sono di poco inferiori a quelle dell’aprile 2022.

L’introduzione di un “tetto” al prezzo del petrolio russo ha messo a rischio la commercializzazione del 12% del petrolio mondiale

Sorge quindi la domanda: chi sta pagando le conseguenze di aver messo a rischio la produzione e la commercializzazione del 12% del petrolio mondiale? Anche senza le sanzioni contro la Russia, la pressione sul lato dell’offerta del settore petrolifero, che già da tempo soffre di una protratta mancanza di investimenti e nel recente passato è stato anche penalizzato dalle politiche mondiali in materia di transizione energetica, rimane sempre elevata. Ad oggi infatti la domanda di petrolio è intorno ai 100 milioni di barili al giorno, ma è destinata a crescere ulteriormente. Secondo lo scenario di emissioni nette zero entro il 2050 formulato dall’IEA, la domanda di oro nero aumenterà stabilmente fino al 2030 raggiungendo i 108 milioni di barili al giorno. Si prospetta, quindi, la possibilità di un perdurare di prezzi elevati che, in concomitanza con le disastrose politiche monetarie espansionistiche delle banche centrali, creerebbero una spirale inflazionistica difficile da contrastare per qualsiasi Paese.

Molte nazioni stanno già affrontando questa nuova realtà. Nel marzo del 2022, dopo che il petrolio ebbe sforato i 120 dollari al barile, il presidente statunitense decise che, per fermare la conseguente impennata dei prezzi della benzina negli Stati Uniti, passata dai 2,9 ai 4,3 dollari al gallone, fosse necessario attingere alle riserve strategiche di petrolio nazionali (SPR). Biden dispose, così, di immettere sul mercato 180 milioni di barili fino al dicembre dello stesso anno, circa un milione di barili al giorno per sei mesi. Le riserve strategiche di petrolio furono istituite nel dicembre del 1975, in seguito all’embargo dei Paesi arabi nel 1973-1974. Quando il presidente Ford firmò l’Energy Policy and Conservation Act l’obiettivo era di accumulare riserve fino ad un miliardo di barili e, a partire dal 1977, dopo aver terminato la costruzione dei siti di stoccaggio, i primi barili di petrolio cominciarono ad affluire. Sebbene nel corso degli anni fossero già stati effettuati dei prelievi, la decisione di Biden del 2022 non aveva precedenti: tra il marzo e il dicembre del 2022 le riserve strategiche statunitensi di petrolio passarono da 566 a 372 milioni di barili, visti anche ulteriori 38 milioni di barili indicati come “vendite obbligate”. Nonostante gli acquisti del Dipartimento statunitense per l’Energia (DOE), considerando i dati tra la fine del 2022 ed aprile del 2024, le SPR hanno visto un ulteriore decremento netto di 7 milioni di barili.

Il piano USA per tenere sotto controllo i prezzi petroliferi

Secondo la strategia delineata nell’ottobre del 2022, il DOE si era impegnato a riacquistare il petrolio ad un prezzo compreso tra 67 e 72 dollari al barile, tuttavia a dicembre dello stesso anno l’ordine per il primo quantitativo di barili, 3 milioni, era stato piazzato ad un prezzo del WTI di 74 dollari al barile. Ad aprile del 2023, Amos Hochstein, Coordinatore presidenziale speciale degli Stati Uniti per le infrastrutture globali e la sicurezza energetica e anche Consulente senior per la sicurezza energetica del Dipartimento di Stato statunitense, dichiarò che gli acquisti per le SPR sarebbero stati ripresi nell’autunno dello stesso anno ad un prezzo inferiore ai 70 dollari al barile, quando nello stesso periodo il prezzo del WTI era già lievitato a 77 dollari circa al barile. Dalla fine del 2022 fino a settembre del 2024 sono stati molti gli ordini piazzati o programmati per il nuovo accumulo delle SPR. È necessario notare, tuttavia, che non tutti gli ordini piazzati siano stati soddisfatti, come ad esempio è successo ad agosto del 2023 o ad aprile del 2024, quando sono stati cancellati, rispettivamente, ordini per 6 e 3 milioni di barili. Secondo i dati di Standar&Poors del febbraio 2024 il prezzo medio di riacquisto del petrolio è stato di 77,81 dollari al barile e i volumi totali riacquistati si aggiravano intorno ai 32 milioni di barili. A inizio del 2024, quando era ormai chiaro che le sanzioni contro l’export del petrolio russo non stavano sortendo l’effetto desiderato ed erano aggirate dalla maggior parte degli acquirenti, il governo statunitense, anche visto il nuovo repentino aumento dei prezzi, fu costretto a rivedere il tetto al quale era disposto a comprare petrolio per le SPR, definendo il nuovo massimale a 79 dollari, per poi infrangerlo a marzo dello stesso anno piazzando un ordine di 2,5 milioni di barili a 81 dollari.

Sin dall’annuncio a marzo del 2022, la manovra di Biden non fu recepita in maniera positiva. Vendere le proprie riserve strategiche non solo aumentava i rischi di sicurezza energetica degli stessi Stati Uniti, ma era soprattutto finanziariamente poco sensato. Dal punto di vista dell’offerta di petrolio 1 milione aggiuntivo di barili al giorno non ha determinato un movimento significativo di prezzo, più influenzato dalle scelte produttive definite dall’OPEC+ e dalla salute dell’economia mondiale. Il prezzo del WTI, per esempio, è sceso definitivamente sotto i 100 dollari al barile solo nell’agosto del 2022 in seguito alla notizia che i dati della produzione industriale di molte nazioni erano stati insoddisfacenti. La vendita delle riserve strategiche, inoltre, non ha mai risolto le difficoltà strutturali dell’offerta del petrolio. Nel lungo termine, infatti, persiste il rischio di un nuovo aumento del prezzo del petrolio nel momento in cui gli Stati Uniti iniziassero attivamente a riacquistare barili per le SPR.

La manovra del presidente statunitense, perciò, può essere considerata come una manovra di politica interna. Dal momento che le questioni e i problemi in materia economica hanno sempre avuto un ruolo determinante nell’indirizzare il voto dei cittadini durante le elezioni, per Biden era cruciale dimostrare, a metà del suo mandato, di essere in grado di tenere sotto controllo l’inflazione, sospinta appunto dall’aumento dei prezzi del petrolio, preparando così la sua ricandidatura per le elezioni che si terranno a novembre del 2024. I dati di marzo e aprile 2024 dimostrano come l’economia statunitense non sembri riuscire a riprendersi e l’inflazione cresca a livelli più sostenuti di quanto ci si aspettasse. A maggio del 2024, avvicinandosi sempre più le elezioni, Amos Hochstein, dichiarò che gli Stati Uniti avevano ancora abbastanza riserve per sopperire ad un eventuale contrazione dell’offerta di petrolio e per mitigare un possibile innalzamento dei prezzi, lasciando così intendere che il presidente Biden avrebbe potuto ancora attingere alle SPR nel prossimo futuro.

Il petrolio russo e le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti

Quando Hillary Clinton gridò allo scandalo, accusando la Russia di aver colluso con Trump nelle elezioni statunitensi del 2016, non si rendeva conto che il prossimo presidente democratico avrebbe fatto di tutto per rendere la sua una “profezia che si autoadempie”, sbagliandosi solo sui reali attori e sugli strumenti che avrebbero fatto avverare la sua stessa profezia. Gli effetti delle sanzioni sul petrolio russo, delle quali gli Stati Uniti sono stati i più convinti promotori, potrebbero giocare un ruolo non di secondo piano nelle elezioni del Paese. Nei primi mesi del 2024, “accidentalmente”, le vendite di petrolio e prodotti petroliferi russi a terze parti “sconosciute” sono aumentate e, nonostante, il DOE affermi che a partire dal 2023 non vi siano stati più acquisti di petrolio russo, sarebbe doveroso dire che questi dati si riferiscono agli acquisti diretti, ma non tengono in conto gli acquisti effettuati attraverso intermediari. Estremamente curioso è il caso dello stesso Pentagono statunitense, che si serve di una raffineria Motor Oil Hellas in Grecia, la quale acquista petrolio russo dalla Turchia.

Economista

Riccardo Fallico