La crescita a livello globale si affievolisce e al tempo stesso l'inflazione fatica a tornare all'obiettivo target del 2% che, probabilmente, varrebbe la pena alzare
Il Fondo Monetario Internazionale prevede che la crescita si affievolisca per il rallentamento strutturale della Cina
L’inflazione era scomparsa dai radar degli investitori, dei consumatori e delle aziende sino al 2021, per poi tornare bruscamente e inaspettatamente nel 2022, per effetto dell’aumento dei prezzi di gas e petrolio causato da una politica fiscale simultaneamente espansiva in tutti i paesi del mondo (per reagire alla recessione indotta dalla pandemia) e dalle tensioni indotte all’invasione dell’Ucraina. Le banche centrali hanno reagito tardivamente allo shock del 2022 (soprattutto la BCE) e hanno mantenuto sino ad oggi l’impostazione tradizionale che individua nel 2% l’obiettivo inflazionistico di lungo periodo, che ancora oggi funge da benchmark tendenziale attorno a cui misurare le probabilità di diminuzione dei tassi di interesse di breve periodo. Quali sono oggi le probabilità di riduzione dei tassi di interesse previste dal mercato per il 2024? Sono coerenti con le previsioni di crescita? Quali i margini di libertà gestionale delle banche centrali?
Le previsioni di crescita per il 2024: nell’aggiornamento di luglio, il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita mondiale del 3,2% nel 2024 e del 3,3% nel 2025, destinata però ad affievolirsi nel medio periodo a causa del rallentamento strutturale che avviene in Cina. Dal punto di vista mondiale, un ulteriore elemento di rischio proviene dalla Russia e dalla riduzione della crescita di medio-lungo periodo per un’economia che ha deciso di spostare l’allocazione delle proprie risorse verso la produzione di armi, sacrificando, tra le altre cose, gli investimenti in tecnologia e formazione. Gli Stati Uniti sono in lieve contrazione rispetto alle stime di aprile, 2,6% e 1,9%, mentre l’Europa pare riprendersi con 0,9% e 1,5%, soprattutto grazie alla Germania, e nonostante la discesa delle previsioni per l’Italia rispettivamente a 0,7% e 0,9%. Quindi, in termini relativi (tra paesi) non ci sono molte novità, anche se il contesto complessivo della crescita pare indebolirsi nel medio periodo.
Ci dimentichiamo che siamo in uno dei periodi maggiormente espansivi della storia del punto di vista della politica fiscale
Gli elementi strutturali del rallentamento: in questo periodo ci concentriamo spesso sull’impatto potenzialmente negativo sulla crescita dato dal tasso di interesse, e ci sforziamo di formulare previsioni sulla politica monetaria (discusse in seguito), dimenticandoci però dell’elemento essenziale: siamo in uno dei periodi maggiormente espansivi della storia del punto di vista della politica fiscale. L’Italia è un caso-scuola, con un deficit pubblico superiore al 7% e un rapporto debito-PIL che si avvia di nuovo a superare il 140%. La coesistenza di un disavanzo pubblico al 7% del PIL con una crescita inferiore all’1% è un elemento veramente sorprendente. Per quanto gli studi accademici abbiano rivisto verso il basso le stime del moltiplicatore keynesiano del reddito, tendiamo a pensare che il disavanzo crei domanda aggregata che induce le imprese a produrre beni e servizi. Con consumi in lieve crescita e un buon avanzo commerciale, dove sparisce l’impatto di spesa pubblica e trasferimenti? Il moltiplicatore del reddito si è annullato? Seppur con proporzioni diverse, anche negli Stati Uniti il rapporto tra spesa pubblica e crescita sembra essersi deteriorato nel corso del tempo. Forse il problema è che la spesa pubblica non è usata per creare infrastrutture e capitale umano?
Le previsioni sui tassi di interesse per il 2024 e l’inflazione: i mercati obbligazionari si aspettano due riduzioni dei tassi di interesse in Europa, a settembre e dicembre, e sono sempre più incerti su cosa farà la FED, che da una parte comincia a intravvedere segnali di rallentamento e dell’altra vuole acquisire maggiore certezza sul rientro dell’inflazione. Emergono quindi, nel confronto Atlantico, i primi segnali di eterogeneità di politica monetaria causata dalla divergenza di breve periodo della crescita e dell’inflazione. Lo scenario di medio termine per l’inflazione è forse meno ottimistico di quello contemplato dai mercati finanziari. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale nota la dinamica dei salari e dei prezzi nel settore dei servizi come elementi di attenzione. Ma possiamo aggiungere ai fattori che potrebbero rendere l’inflazione di medio periodo superiore al 2%, la riduzione del commercio internazionale, causata nel breve periodo dai dazi e nel medio-lungo periodo dall’aumento dei costi di trasporto di merci e persone conseguente alla internalizzazione dei costi delle emissioni di CO2. Questo ultimo punto merita un piccolo approfondimento: il green deal europeo pone il nostro continente all’avanguardia mondiale negli sforzi per cambiare il sistema complessivo di produzione dei beni e dei servizi, e il recente appoggio dei verdi alla rielezione di Ursula von der Leyen potrebbe rinforzare, e non ridurre come sembrava essere suggerito dai risultati elettorali, l’impegno dell’Europa verso la sostenibilità (per quanto paradossale questo in un mondo in cui la vera impennata di produzione è stata quella delle armi, con un impatto sulle emissioni di CO2 in Ucraina, nei primi 18 mesi di guerra, pari a quanto prodotto in un anno da un paese come Austria o Portogallo (qui un approfondimento). Il risultato razionale dello sforzo di ristrutturazione delle fonti di energia verso quelle meno inquinanti non può che avere il risultato di aumentare nel breve periodo il costo di approvvigionamento energetico, con un impatto strutturale sull’inflazione (in particolare per l’Europa data l’autosufficienza energetica degli Stati uniti).
La mancanza di visione complessiva della BCE su come indirizzare un’economia europea in difficoltà non è rassicurante per imprese, cittadini e investitori
Le decisioni e la strategia (?) della BCE: nella riunione del 18 luglio la BCE non ha toccato i tassi di interesse. Si tratta di un’ottima notizia in quanto le aspettative sono state rispettate. Nella motivazione, è stato sostenuto che “l’impatto inflazionistico dell’aumento salariale è stato assorbito dai profitti, allo stesso tempo la crescita dei prezzi nei servizi resta elevata e il tasso complessivo di inflazione rimarrà sopra il 2% sino a 2025 inoltrato”. La BCE ha inoltre confermato il cambiamento della propria identità, passando dalla forward guidance di Mario Draghi al “data-dependent and meeting-by-meeting approach” di Christine Lagarde. Insomma, proprio quando servirebbe una visione strategica, e fortemente integrata con la politica fiscale, per indirizzare l’economia europea verso un futuro anche economicamente sostenibile, la nostra banca centrale si tuffa nella reazione di breve periodo alla dinamica congiunturale riaffermando allo stesso tempo la determinazione a riportare l’inflazione al 2%. La mancanza di visione complessiva e la riflessione su come indirizzare un’economia europea in difficoltà non è rassicurante per imprese, cittadini e investitori.
Conclusioni: la situazione della crescita è in rallentamento molto moderato e le banche centrali (non dimentichiamolo) sono riuscite nell’impresa di normalizzare i tassi di interesse mediante il più veloce e intenso aumento della storia senza causare danni rilevanti alla struttura finanziaria. Questo fornisce importanti opzioni di riduzione dei tassi per fare fronti a rallentamenti congiunturali ma solo nel caso in cui l’inflazione rientri verso l’obiettivo del 2%. Ma tale rientro non ha il vento in poppa. Negli ultimi periodi della Presidenza di Mario Draghi si era iniziato un dibattito relativo all’opportunità di aumentare il target di inflazione sopra al 2%. Sarebbe forse il caso di discutere nuovamente questo punto?