Un articolo di: Alessandro Banfi

Secondo Byung-Chul Han le narrazioni nella nostra società sono in crisi da tempo. Nonostante l’uso e l’abuso del termine, il raccontare è diventato vittima del consumismo

La poesia è diventata slogan pubblicitario. La trama e il colpo di scena (l’agnizione) sono finalizzati ad accumuli emotivi, senza più profondità

Nel web se cercate un maestro di narrazione vi salta subito fuori il nome di Elon Musk. L’imprenditore di origine sudafricana è un riconosciuto leader mondiale di storytelling. Forse anche per questo si è comprato Twitter, facendo sparire l’uccellino e il cinguettio e sostituendolo con il suo enigmatico X, che era ed è il social dell’informazione e del giornalismo. Musk è uno che dovendo vendere satelliti piccoli e a basso costo (il vero business) ha parlato per mesi del lancio su Marte (con Space X). La sua vettura elettrica, la Tesla, è stata sempre più “raccontata” come una rivoluzione di stile e di vita che come mezzo di trasporto. Elon Musk è un caso di scuola, ma è in buona compagnia.

I politici e i leader di mezzo mondo parlano continuamente di “narrazione”. Joe Biden e Donald Trump si scontrano sulla “narrazione” del 6 gennaio 2021. Uno dei saggi più brillanti su un politico italiano dell’ultima generazione, Matteo Renzi, non è di un politologo, né di un economista e neanche di un analista internazionale ma di un professore di italianistica, Claudio Giunta (Essere #Matteo Renzi, edizioni Il Mulino, 2015). Renzi fece scoprire a tutti le virtù dello “storytelling” governativo con il suo protagonismo sui social e le slide nelle conferenze stampa di Palazzo Chigi.

Ora un brillante filosofo di origine coreana, Byung-Chul Han che studia da anni in Germania, ha pubblicato a Berlino un saggio (appena uscito in Italia) che ha un titolo molto preciso: La crisi della narrazione. Sottotitolo: Informazione, politica e vita quotidiana. La tesi del brillante Byung-Chul (in Corea come in Cina il cognome precede il nome) è contro corrente: le narrazioni nella nostra società sarebbero in crisi da tempo. Nonostante l’uso e l’abuso del termine, in realtà il raccontare è diventato davvero vittima del consumismo (il “potere omologante” denunciato già negli Settanta da Pier Paolo Pasolini). Non più strumenti per orientarsi nel mondo, per costruire il proprio itinerario, le storie sono asservite ad una logica di commercio, di vendita. Sono ridotte, avrebbe già detto Karl Marx nel suo Il Capitale, a merce.

La poesia è diventata slogan pubblicitario. La trama e il colpo di scena (l’agnizione) sono finalizzati ad accumuli emotivi, senza più profondità. Le notizie e l’informazione non servono più a farsi un’opinione, a crearsi un proprio sapere (“Deliberare per conoscere” diceva Luigi Einaudi o anche il “Knowing keeps us free” recitato da Tom Hanks nello spot del Washington Post durante il superbowl del 2019) ma sono concepiti in un meccanismo di accalappiamento, di “clickbait”, in un facile acchiappa-citrulli. Nelle narrazioni manca ormai quasi sempre quello che il filosofo coreano chiama “il momento di verità interno”, o che Alessandro Baricco, uno scrittore che si è tanto occupato di questo tema in The Game e non solo, chiama la necessaria “vibrazione” del racconto.

L’interesse è tutto rivolto ad una tecnica. Secondo il filosofo coreano, ciò che conta sono le regole di composizione che permettono di costruire il racconto. Sfugge la realtà. Per la verità, questa criticità è antica come il mondo. Marco Porcio Catone, detto nell’antica Roma il censore, quello che aveva coniato lo slogan “Carthago Delenda Est”, polemizza con la retorica greca accusata di concentrarsi sulle regole e gli stratagemmi dell’argomentazione più che sulla realtà dei fatti. Il suo memorabile detto in questo campo è: “Rem tene, verba sequentur”. Metti a fuoco la cosa, quello che vuoi dire e le parole verranno. Ma oggi un Catone dov’è?

 

Oggi la narrazione è diventata effimera ed inefficace. Lo storytelling è soprattutto uno storyselling

Non si tratta solo di tecnica. C’è un gioco di parole che spiega in un lampo perché oggi la narrazione è diventata effimera ed inefficace. Lo storytelling è soprattutto uno storyselling: il cambio di una sola lettera nell’espressione inglese racconta la trasformazione presente. Nelle strategie del marketing contemporaneo, come sostiene Byung-Chul, “ci troviamo a comprare, vendere, consumare racconti ed emozioni. Le storie vendono. Raccontare storie coincide con il vendere storie”. E si perdono due coordinate: il tempo e la “comunità narrativa”.

Il tempo manca perché tutto è confusamente sintonizzato sul presente. In un eterno presente. Devo dire che la mia personale esperienza di insegnante all’Università conferma questo giudizio: gli studenti di oggi stentano a comprendere la linea storica degli eventi, la loro successione, le relazioni che nella realtà crescono fra i diversi momenti della storia umana. Nel ronzio di fondo dell’informazione che noi adulti gli proponiamo, non ci sono più gerarchie o grandezze, prima e dopo, fatti e opinioni. Spesso i miei studenti slittano sulle “leggi fascistissime del 1925-1926” che fra l’altro in Italia abolirono la libertà di stampa, introducendo la censura e la prigione per i giornalisti. Non sanno spiegare il nesso con il sequestro e l’omicidio di Giacomo Matteotti e poi con l’articolo 21 della Costituzione italiana che i padri costituenti, compresi Moro, La Pira e Togliatti, vollero fissare dopo la caduta del Fascismo e la Liberazione. Vivere in un finto perenne presente rende la storia piatta, insignificante, a tratti bislacca e inutile da conoscere. Byung-Chul cita il calendario cristiano come esempio positivo di narrazione con un “momento verità interno”. Scrive il filosofo: “Narrando la religione cristiana spazza via la contingenza. È una metanarrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere”.

La seconda mancanza è quella della comunità. Per Byung-Chul “la comunità narrativa è una comunità che resta in ascolto”. Ma oggi l’ascolto, come ha notato recentemente papa Francesco in uno dei suoi messaggi sulla comunicazione sociale, è un’impresa di pochi, di pochissimi. “Stiamo perdendo”, ha detto Bergoglio, “la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile”. Ascoltare postula infatti un’apertura all’altro, un’immedesimazione, una fiducia. Scrive il filosofo: “Il dono del restare in ascolto ci sta sempre più abbandonando. Noi produciamo noi stessi, ci spiamo a vicenda, anziché, dimenticando noi stessi, donarci ascolto e restare in ascolto l’uno dell’altro”.

 

La guerra torna in primo piano oggi, quando a mancare è proprio la “comunità umana”, distrutta e parcellizzata in tanti individui singoli che guardano uno schermo

In un momento, per l’appunto, così oscuro e critico della storia mondiale, sul tema della comunità viene in mente l’interessante carteggio fra Albert Einstein e Sigmund Freud sulla guerra e sulla pace. La vicenda è nota ed è contenuta in un libro, ma è anche facilmente rintracciabile sul Web. Nel 1932 il grande fisico, scopritore della Relatività, scrisse una lettera al fondatore della psicanalisi molto esplicita e diretta: “La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Domanda preveggente visto che sette anni dopo inizierà la Seconda Guerra mondiale. Ebbene Freud nella articolata risposta ad Einstein rispose, fra l’altro, che per evitare la guerra, esito di pulsioni animali, “la condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione”.

Fa riflettere che la guerra torni fortemente in primo piano oggi, quando a mancare è proprio la “comunità umana”, distrutta e parcellizzata in tanti individui singoli che guardano un piccolo (o grande schermo) davanti a loro, anche durante un pranzo di famiglia o una cena fra fidanzati. La comunità incalza l’individuo, costringe ad una ricerca di senso, sveglia il senso del limite e del fine. Byung-Chul Han è formidabile nel descrivere l’epoca in cui viviamo. Più difficile semmai è indicare una strada alternativa, una via di fuga perché la nostra narrazione riacquisti senso e speranza.

Ai miei studenti porto talvolta l’esempio di due grandi scrittori. Per aprire la prospettiva di una narrazione positiva, più che per offrire una soluzione. Il primo è quello di Johann Wolfgang Goethe. Goethe arriva in Italia, attraversando il Brennero con una carrozza, è da solo, come se uno oggi arrivasse in taxi. Arriva a Torbole sul Garda il 12 settembre 1786, alloggia presso l‘Osteria alla Rosa della famiglia Alberti ed ha una visione spettacolare del lago. Sul suo diario, il Tagesbuch annota: «Con che ardente desiderio vorrei che i miei amici si trovassero un momento qui con me, per poter gioire della vista che mi sta innanzi! Per questa sera, mi sarei già potuto trovare a Verona; ma a pochi passi da me c’era questo maestoso spettacolo della natura, questo delizioso quadro che è il Lago di Garda, ed io non ho voluto rinunciare; così mi trovo splendidamente compensato di avere allungato il cammino. Sono partito da Rovereto dopo le cinque, prendendo per una valle laterale, che versa le sue acque ancora nell’Adige. Arrivati alla sommità, si presenta in basso un ciglione scosceso e maestoso, che si valica per poi scendere fino al lago». La bellezza del Garda a settembre non sarebbe tale se non fosse dallo scrittore divisa, condivisa, messa in comune con gli amici. Nasce così l’urgenza della scrittura: ecco una narrazione necessaria, profonda, che crea una comunità di senso e di bellezza.

Il secondo narratore è il grande Albert Camus. Camus, ritirando il premio Nobel per la letteratura nel 1957 a Stoccolma, pronuncia queste parole: “In tutte le circostanze della sua vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine”. È la comunità vivente che “giustifica” l’opera dello scrittore, la sua narrazione. La sua missione. Tutto il resto è storytelling. Anzi, storyselling.

Giornalista, Autore tv

Alessandro Banfi