Per contrastare l’espansione globale della Cina gli USA affidano all’India il ruolo della nuova “fabbrica del mondo” e stanno per costruire un nuovo percorso, che passerà per l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele. La “via della seta” indiana, alternativa al progetto cinese “Belt and Road Initiative” darà ai produttori indiani l’accesso mai visto prima ai mercati globali.
Diciamolo subito: quella nostra è soltanto un’ipotesi, basata però su una scrupolosa e attenta analisi dei fatti. Dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha più volte dichiarato che oltre alla distruzione completa del movimento Hamas, lo scopo fondamentale dell’operazione di terra sarà l’allargamento del territorio dello Stato ebraico Gli obiettivi dell’offensiva israeliana, tracciati da Netanyahu, sono un Israele “dal fiume al mare”: dopo la fine della guerra “Israele controllerà la sicurezza della Striscia di Gaza e tutti gli insediamenti ebraici a ovest del fiume Giordano”, ha dichiarato il premier israeliano.
Questa presa di posizione, che nega alla Palestina la costituzione di uno Stato proprio, indica che Israele insieme agli Stati Uniti e a un gruppo di Paesi del Sud globale si prepara a diventare attore di primissimo grado della nuova catena di approvvigionamenti. La realizzazione del piano aumenterà vertiginosamente il peso politico ed economico dello Stato ebraico negli affari internazionali. In altri termini la nuova “via della seta”, proposta dal leader cinese, Xi Jinping, nell’ambito del suo ambizioso progetto “Belt and Road Initiative”, passerà non più dalla Cina verso l’Europa, ma dall’India per l’Arabia Saudita, la Giordania e fino ai porti esistenti e nuovi israeliani del Mediterraneo.
Monumento all’Antica Via della Seta in Uzbekistan, Asia Centrale
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Gli Houthi come motivo per costruire una via alternativa al Canale di Suez
Degli Houthi si è parlato poco o niente fino a dicembre del 2023 quando il gruppo yemenita ha lanciato i primi attacchi contro le navi in transito verso il Golfo di Aden, lo Stretto di Bab el Mandeb, il Mar Rosso e infine il Canale di Suez. Dal 2014 in Yemen è in corso il conflitto cruento fra i ribelli Houthi, gruppo armato originario del nord del Paese a maggioranza sciita, e il governo centrale. I 10 anni della guerra civile sono costati la vita a circa 50.000 persone. Sono state distrutte 600.000 case, 1.700 moschee, 410 ospedali e più di 1.200 scuole. Ma gli Houthi sono finiti nei titoli dei media internazionali soltanto in seguito agli attacchi poco efficienti e inspiegabili con la logica normale umana.
Ufficialmente il movimento si chiama “Ansar Allah”, letteralmente “I difensori di Dio (Allah)”, ma il nome con cui tutto il mondo li ha conosciuti deriva dal loro leader storico Hussein Badr-al-Din al-Houthi che nel 1992 fondò “al-Shabab al Mumin”, i “Giovani credenti”, nel governatorato di Sa’da, nel nord del Paese arabo a maggioranza sciita.
Gli Houthi si ispirano agli Hezbollah libanesi, combattono da dieci anni non soltanto conto il Governo dello Yemen, ma anche contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Sono alleati di ferro dell’Iran e attaccano le navi per porre fine – come dicono – alla guerra a Gaza.
C’è chi sostiene, e di certo non mancano le teorie del complotto, che nel corso degli ultimi 10 anni gli Houthi siano stati addestrati e armati per dare un giorno il via alla realizzazione di un progetto globale, quello destinato a rubare il primato economico alla Cina, concedendo il ruolo della “fabbrica globale” all’India e infine creando un nuovo percorso dall’Asia all’Europa senza coinvolgere più la Cina con il suo “belt and road”. Non per caso i Paesi europei tra cui l’Italia sono man mano usciti dall’iniziativa di Xi Jinping.
C’è chi sostiene anche che fu una dimostrazione della vulnerabilità del percorso storico, quell’incidente del marzo 2021, quando la gigantesca nave portacontainer Ever Given, lunga 400 metri, si incagliò – guarda caso – nella parte più stretta dell’intero Canale di Suez, provocandone l’ostruzione completa.
I leader degli Houthi hanno garantito la “sicurezza” alle navi della Russia e della Cina, affermando che “vengono attaccate soltanto le navi che hanno a che vedere con Israele, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna”. In realtà è molto difficile stabilire l’appartenenza vera e propria delle navi o delle merci a bordo: il 27 gennaio è stata attaccata con un missile e seriamente danneggiata la nave cisterna Marlin Luanda, che trasportava del petrolio russo, ma gestita dal trader britannico Trafigura Group. Oppure come si può stabilire l’appartenenza della nuova nave porta-veicoli “BYD Explorer”, partita lunedì 17 gennaio dalla Cina per l’Europa con a bordo 5.000 vetture cinesi? La nave è stata costruita dal cantiere navale cinese Yantai CIMC Raffles per la compagnia di navigazione israeliana Zodiac Maritime.
I leader degli Houthi sostengono anche che gli attacchi contro le navi devono aiutare il popolo palestinese e costringere Israele a ritirarsi dalla Striscia di Gaza. Per il momento l’escalation della tensione nel Mar Rosso ha causato un triplicarsi dei costi di trasporto dei container dalla Cina, con impatti significativi sui porti del Mediterraneo e le preoccupazioni per i prezzi dell’energia e l’inflazione.
Secondo un rapporto dell’agenzia italiana “ISPI-Datalab”, del novembre 2023 e metà gennaio 2024 il costo per trasportare un container da Shanghai a Genova è più che quadruplicato, passando da 1.400 a 6.300 dollari. Nel giro di poche settimane l’Italia ha subito una riduzione del traffico portuale del 24%, con i porti del Nord Europa che invece ne beneficiano. Inoltre i dati ISPI indicano le crescenti preoccupazioni per l’energia, con una significativa riduzione delle consegne di gas naturale liquefatto (GNL) del Qatar che in gennaio sono diminuite del 70%.
L’India, scelta come protagonista del nuovo “miracolo economico”
Nel 2023 l’India e gli Stati Uniti hanno dato una spinta alla cooperazione in molti settori strategici. Come ha titolato l’autorevole quotidiano italiano “Il Sole 24 Ore” i due Paesi “accrescono la cooperazione per contenere la Cina”. Nel novembre del 2023, poco tempo dopo l’attacco di Hamas contro Israele, i vertici della diplomazia e della difesa dell’India e degli USA si sono incontrati ieri a New Delhi con l’obiettivo di approfondire la partnership strategica tra i due Paesi e la collaborazione sul fronte tecnologico e della difesa. “Apprezziamo il fatto – ha detto il Segretario di Stato americano, Antony Blinken – che fin dal primo giorno l’India abbia condannato fermamente gli attacchi del 7 ottobre”. Gli analisti internazionali parlano sempre più spesso di “un’inedita sintonia del Governo indiano di Narendra Modi con Israele, apprezzato fornitore di sistemi di sicurezza e di software”. Agli occhi dei vertici politici a governo a New Delhi, “una democrazia come quella israeliana, modellata com’è intorno alle istanze di una maggioranza religiosa, appare senz’altro come un modello”.
Inoltre, come ha scritto Il Sole 24 Ore “dopo decenni di diffidenza durante la Guerra Fredda, quando New Delhi era il Paese capofila dei non-allineati e coltivava solidi rapporti con l’Unione Sovietica, ora l’India e gli Stati Uniti stanno vivendo una stagione di forte collaborazione sul fronte diplomatico, economico e militare”. Washington definisce l’India uno dei suoi partner “più stretti”, fa finta di non vedere che le raffinerie indiane importano del greggio russo sopra il tetto di prezzo stabilito dal G7, e da “alcune amministrazioni sembra aver individuato nel Paese asiatico l’unico contrappeso credibile all’ascesa politica e militare cinese”.
New Delhi, che definisce come “assolutamente reale” il pericolo rappresentato dalla Cina sui confini nord-orientali dell’India, è diventata meno diffidente degli Stati Uniti e ha fatto cadere nell’oblio la terminologia del tipo “gendarme globale”. Da tempo l’industria bellica americana è ritenuta dall’India un valido sostituto di quella russa. Lo scorso anno India e USA hanno firmato un accordo di “collaborazione per la produzione di un numero imprecisato di veicoli blindati Stryker”, che saranno dispiegati nelle regioni al confine con Cina e Pakistan.
Vignetta Medievale dell’Atalante Catalano. La carovana del Tredicesimo Secolo con Niccolò Polo (padre di Marco Polo) e Maffeo Polo (zio di Marco Polo) che attraversano l’Asia
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La nuova “fabbrica” del mondo
Negli ultimi due anni sempre più big dell’industria occidentale da Tesla a Intel, stanno lanciando le proprie produzioni in India. L’elevato potenziale socio-economico dell’India tra tutti i Paesi del Sud Globale discende da diversi fattori, dalla demografia al capitale umano. La popolazione del Paese ha raggiunto quota 1,4 miliardi di persone, sorpassando la Cina. L’età media è di 28 anni, tra le più giovani del pianeta, mentre il prezioso capitale umano si cristallizza nei 500.00 nuovi ingegneri che si laureano ogni anno. L’India sta recuperando velocemente l’arretratezza delle infrastrutture di trasporto (autostrade, ferrovie, porti, aeroporti) e delle reti elettriche.
E tra le ambizioni di Nuova Delhi c’è quella di assumere la guida dei Paesi del Global South. Tra le iniziative annunciate dal premier Modi durante il G20 dello scorso novembre c’è stato anche il prossimo lancio di un satellite indiano per il monitoraggio del cambiamento climatico da mettere al servizio dei Paesi in via di sviluppo.
Gli esperti notano però che a differenza dal contesto del Sud Est asiatico, il settore manifatturiero indiano è ancora relativamente poco integrato nelle catene di approvvigionamento globali. A risolvere il problema dovrà appunto il nuovo percorso India-Mediterraneo. Sarà un modo per creare un’alternativa alla “Belt & Road Initiative” cinese e rafforzare i legami dell’India con Israele e il Medio Oriente che stavano prendendo forma dopo gli “Accordi di Abramo” del 2020.
Gli “Accordi di Abramo” sono un insieme di dichiarazioni firmate, in momenti diversi e con la mediazione degli USA da Israele con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e anche con il Sudan. A seguito della guerra tra Israele e Hamas, il processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra l’Arabia Saudita e Israele, previsto dagli “Accordi di Abramo”, è stato messo in crisi. In questo contesto molto lascia supporre che nel 2024 l’India, in ottimi rapporti sia con Tel Aviv che con Riyadh, giocherà un ruolo attivo e importante sullo scacchiere politico internazionale.
Nuovo percorso globale e l’accesso ai mercati
Il ruolo dell’India è reso sempre più centrale dalla posizione geografica del Paese asiatico, il vero punto nevralgico delle tratte navali che, attraverso l’Oceano Indiano, collegano il Medio Oriente con le regioni affacciate sul Pacifico.
Una parte della nuova “via della seta”, che parlerà l’hindi, non più il cinese, potrà dunque partire da Mumbai, attraversare l’Oceano Indiano, arrivare nel Golfo Persico, dopodiché dai porti e dai terminali petroliferi dell’Arabia Saudita, dirigersi per il ricostruito oleodotto “Tapline” e una nuova super ferrovia, verso il territorio della Giordania, e arrivare nel giro di pochissimo tempo ai porti dello Stato di Israele sulle coste del Mediterraneo.
E l’Arabia Saudita si prepara a diventare una specie di hub internazionale, rivelato al mondo i suoi spettacolari paesaggi e reperti di numerose antiche civiltà pre-islamiche, dall’Età del Bronzo in poi. Le tombe scolpite nella sabbia ricordano Petra, ma sono molte di più con molti meno turisti. I suoi spazi sconfinati hanno attratto i riflettori del turismo e delle compagnie alberghiere: gli hotel decuplicheranno nei prossimi anni. Nel 2022 sono arrivati Aman Resorts e Banyan Tree, più avanti sarà lo Sharaan, il mega-resort nella sabbia firmato dal celebre architetto francese, Jean Nouvel. È in corso con la partecipazione italiana la costruzione della città di Trojena, parte della futuristica regione saudita di Neom, che sarà la più grande smart city del mondo e ospiterà i Giochi asiatici invernali del 2029. E in questo contesto cosmopolita non mancano di certo le iniziative bizzarre: nei giorni scorsi a Riyadh, la capitale dell’Arabia Saudita, è stato aperto il primo negozio di alcolici dopo oltre 70 anni. La vendita dei prodotti è al momento riservata al personale diplomatico estero proveniente da Paesi di religione non islamica. L’apertura è stata vista come un tentativo del regime saudita, uno dei più conservatori al mondo, di rilassare le rigide norme imposte sulla popolazione, almeno per gli stranieri. È una delle diverse misure prese negli ultimi anni dal principe ereditario, Mohammed bin Salman, per trasformare il Paese in un posto capace di attrarre più stranieri e più investimenti.
Gravi conseguenze della crisi del Maro Rosso per l’Egitto
Gli effetti della crisi del Mar Rosso stanno avendo ripercussioni sul transito da e per il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, per il quale passa il 12-15% del commercio mondiale. Nell’anno fiscale 2022/2023, conclusosi il 30 giugno 2023, i ricavi del Canale di Suez erano aumentati del 25,2%, raggiungendo circa 8,8 miliardi di dollari, rispetto ai 7 miliardi di dollari dell’anno precedente. Invece nei gennaio 2024 il traffico navale sul Canale di Suez è diminuito di circa il 50% su base annua.
Il 10 gennaio 2024 la banca statunitense JP Morgan ha annunciato di “aver escluso a partire dal prossimo 31 gennaio l’Egitto dalla sua serie di indici dei titoli di Stato dei mercati emergenti”. Hassan al Sadi, professore di economia finanziaria all’Università del Cairo, ha dichiarato al quotidiano “Al Arabiya” che questo sviluppo “comporterà enormi difficoltà per l’Egitto nell’offrire nuove obbligazioni in valuta forte”.
E il Governo egiziano corre ai ripari per superare la crisi economica, aggravata da blocco del Canale di Suez. Le autorità stanno valutando l’opportunità di “cartolarizzare le entrate in valuta estera, in particolare gli introiti derivanti dal Canale di Suez”. Lo ha reso noto un documento pubblicato dal Consiglio dei ministri dell’Egitto, secondo cui il Governo “prevede di raccogliere 10 miliardi di dollari dalla cartolarizzazione di questi proventi per ovviare alla carenza di dollari nelle casse della Banca centrale”. L’idea è quella di “utilizzare i guadagni in valuta estera come una forma di garanzia per il valore futuro di titoli finanziari”.
Infine il ridimensionamento del ruolo del Canale di Suez per le catene di approvvigionamento globali e le perdite miliardarie che l’Egitto rischia di subire dovranno essere compensate in parte dalla realizzazione di alcuni nuovi progetti infrastrutturali. In particolare si tratta di un accordo tra l’Italia e l’Egitto che prevede un collegamento ro-ro, (il trasporto combinato via mare), tra Damietta e Trieste, con agevolazioni doganali e certificazioni blockchain, creando opportunità economiche e una via alternativa sicura nel contesto delle minacce nel Mar Rosso.