Come ha recentemente ammesso il Presidente Lula, la cosa migliore per il Brasile è giocare le proprie carte come membro dei BRICS (primo dei Paesi per ordine alfabetico ma anche per decisione politica) e competere non solo a livello economico ma anche sviluppando una politica sociale innovativa.
I BRICS: un’alleanza di cui più di venti paesi oggi vogliono far parte
Ci hanno fatto crescere raccontando che, a differenza delle persone, i paesi non hanno sentimenti reciproci, ma soltanto interessi. Forse non è il caso dei paesi BRICS, tra i quali, come nelle grandi storie d’amore, le cose si sono fatte serie in una bella giornata estiva a Ekaterinburg, grazie alle loro comuni caratteristiche. È stata una storia talmente seria che si è passati dalle timide strette di mano dell’inizio allo scambio di “anelli di fidanzamento” in un incontro successivo. Così da brevi incontri è emersa “un’alleanza” di cui più di venti paesi oggi vogliono far parte.
Lungi dall’essere un rapporto fugace, è diventato evidente che l’incontro tra i paesi BRICS era scritto nelle stelle – in un certo senso, come nella celebre canzone di Rihanna: “Dal momento della nostra nascita/ eravamo destinati a stare insieme/ in una missione che durerà per sempre”. Una melodia cantata non tanto nel Sud Globale quanto nelle roccaforti del mondo accademico occidentale: la disintegrazione dei mercati finanziari mondiali e la loro debole ripresa è associata alla fine di quelle istituzioni di Bretton Woods che sono state create dopo la Seconda guerra mondiale, per sottomettere le economie subalterne.
Hanno messo busti ortopedici tali da causare danni terribili, distruggendo quasi intere società, compreso ciò che restava dell’ex Unione Sovietica. Quelle cinture di sicurezza si basano su convinzioni scolastiche a proposito delle meritorie strategie mercatiste: il favoreggiamento delle persone al vertice dei paesi in via di sviluppo sarebbe proficuo anche per tutti gli altri, inclusi gli ultimi. Sono le solite strabilianti meraviglie, come quando i ricchi si accaparrano tagli delle loro tasse e si dice che questi tagli in qualche modo creerebbero posti di lavoro per la plebe.
Per scommettere su quello che di solito si rivela un casino – e per garantire il paradiso al FMI e alla Banca Mondiale – l’élite delle democrazie occidentali ha creato il G-7, dipinto come il comitato direttivo informale del mondo, missione presto riassegnata al G-20, espressamente per persuadere Brasile, Cina e India che finalmente sono stati riconosciuti come “coordinatori” di nuovi cluster di attori globali. Ha funzionato all’inizio. Nel 2009 al Brasile e alla Cina è stato concesso il dubbio privilegio di aiutare a garantire al FMI e alla Banca Mondiale “fino a 1.000 miliardi di dollari in risorse aggiuntive” per sostenere Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Lettonia, Pakistan e Ucraina nelle loro disavventure finanziarie.
Allo stesso modo, troppo desideroso di svolgere un ruolo serio, il Brasile è diventato il maggior contribuente di truppe – e l’unico sponsor, secondo Lula – della disastrosa “Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite” ad Haiti. Le conseguenze di un colpo di stato orchestrato da Francia e Stati Uniti per rovesciare un legittimo presidente, sostenitore della teologia della liberazione. e per dissuaderlo dal ritornare al potere. Ironicamente, quando gli errori stranieri diventarono insopportabili, non furono le bandiere degli Stati Uniti e della Francia, ma quella del Brasile, ad essere bruciate dalla popolazione nelle strade di Port-au-Prince, cantando “Abbasso l’occupazione!”
Haiti ha mostrato a Cina e Brasile l’inutilità di imparare dall’imperialismo al potere, la cui ultima progenie è lo stato dei coloni ebrei, dotato di autonomia e innumerevoli risorse per mettere in pratica le diaboliche lezioni apprese dai suoi modelli. Come ha recentemente ammesso Lula, la cosa migliore per il Brasile, e forse per la Cina, è giocare le proprie carte come membri dei BRICS e competere non solo nei casinò economici e politici ma in termini di politica sociale innovativa. Programmi mal concepiti, ispirati agli Stati Uniti, come le “quote razziali”, sono stati soppiantati da programmi di trasferimento di denaro contante e altri che hanno impedito ai giovani vulnerabili di cadere preda della criminalità organizzata e/o di squadre di polizia assassine, ennesimo residuo imperialista.
I servizi finanziari di pari passo con l’irresponsabilità fiscale, il cristianesimo radicale e il rifiuto di affrontare la crisi petrolifera conducono il Brasile al ‘punto di Armageddon’
Anche per quanto riguarda la politica industriale c’è da aspettarsi ben poco dall’Occidente avanzato, se non il contrario. Come sottolinea il presidente della Banca brasiliana di sviluppo, Aloisio Mercadante, il paese si è industrializzato tardi, sotto la pressione della crisi delle materie prime del 1929. Questo fu il momento preciso in cui la vera differenza fu fatta, da quelle che Zygmunt Bauman chiamò “utopie attive” (“società realizzabile”, giustizia sociale, socialismo), sostenute dai membri fondatori dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1919) e utilizzate come catalizzatori per bilanciare idealismo e pragmatismo e mettere in pratica le riforme sociali attraverso “regimi internazionali del lavoro”.
Tenendo presenti queste utopie, negli anni Quaranta in Brasile furono infatti avviate riforme che modellarono un ordine sociale controllato dallo Stato e coerente con gli interessi di grandi gruppi. Le riforme servivano da fari per la competizione privata, ma rispondevano anche all’agenda fondamentale del movimento operaio. Le identità degli affari e dei commerci furono ridefinite, la cittadinanza fu stratificata dividendo le occupazioni in categorie professionali e dando origine ad una società altamente vigorosa, plurale e primordialmente urbana in un contesto capitalista “artefatto”, perché risultante dalla tecnologia, dall’organizzazione e da una conflittualità globale.
Successivamente, la base statale e produttiva messa insieme negli anni Quaranta e Cinquanta entrò in un periodo di crescita accelerata e plasmò una delle società urbane più moderne del mondo, in cui l’industria rappresentava più del 30% del PIL, più di Cina e Corea nel 1980. Il tutto a scapito del debito pubblico. Il sistema di intermediari finanziari brasiliano serve fondamentalmente un’economia mercantile, e da allora, poiché il settore pubblico non dispone di strumenti efficaci per la raccolta di fondi, gli squilibri già presenti nell’economia aumentano invariabilmente. Tutto il contrario in Cina e Corea, sottolinea il professor Mercadante.
Cina e Corea sfruttano al massimo “una relazione creativa tra Stato e mercato, settori statali che inducono allo sviluppo e aziende pubbliche strategiche in settori chiave”, consentendo a entrambi i paesi “di formulare nuovi meccanismi di finanziamento non subordinati alla logica della finanziarizzazione”. In Brasile, i servizi finanziari, intesi in senso ampio – di pari passo con l’irresponsabilità fiscale, il cristianesimo radicale e il rifiuto di affrontare la crisi petrolifera – assumono un ruolo economico, culturale e politico predominante, senza apportare alcun reale beneficio alla società, anzi conducendo al “punto di Armageddon”.
Lula può costruire un Paese più forte, giusto e generoso, pronto a diventare una ‘finestra di opportunità storiche’
Del resto, piuttosto che l’inquietante Armageddon, è meglio riconoscere la vera natura delle cose, in un mondo che cambia, e fare riferimento – come Antonioni in Zabriskie point – al “vuoto” di una cultura che di volta in volta, e in modi sempre più feroci, comanda il collasso di tutto e tutti. In questo senso un “vuoto” paralizzante è il sistema fiscale brasiliano, visto dai media e dal mondo accademico come “un manicomio” destinato a preservare privilegi.
A dicembre, con una standing ovation al Congresso, Lula ha annunciato la revisione più significativa che, dopo più di 30 anni di lavoro, semplificherebbe quel meccanismo perverso. Tuttavia, ha chiesto l’Economist, potrà “resistere alla pressione dei gruppi di interesse speciale e attuarla pienamente?” C’è chi dice di no, visto che a gennaio Lula ha annunciato una nuova politica industriale che prevede centinaia di miliardi in sovvenzioni, prestiti agevolati ed esenzioni dalle tasse di importazione per gli input destinati alle aziende nazionali, da qui al 2026. Mosse che certamente “minano l’idea di un sistema fiscale semplificato”, conclude il giornale ingenuamente.
In effetti, più che “mantenere i conti fiscali in ordine”, il proposito è invertire un lungo processo di deindustrializzazione, questa volta evitando fantasie deliranti di ricchezza, potere, onnipotenza, come quando il paese si è stupidamente accodato alle regole del G-20 o come quando si è aspettato di realizzare qualcosa di buono facendo affidamento su partner inaffidabili come l’UE, gli Stati Uniti e i generali brasiliani.
A quel punto si potrà dire, come nella vecchia canzone di Jimmy James, “ora è il momento di sistemare le cose” e sottolineare che, in quanto parte dei BRICS, il Brasile – a condizione che non ci sia un’ossessione per azioni grandiose – potrebbe essere sul punto di avviare uno sforzo che nessuno può incarnare meglio di Lula. Ciò significa aumentare i consumi di massa, il credito, gli investimenti, e il primato per le aziende orientate all’innovazione, dunque un Paese più forte, giusto e generoso, pronto a diventare una “finestra di opportunità storiche” in un mondo assediato da guerre, crisi, rischi, tensioni, dolore e disperazione.