Focus sull'Iran: come può cambiare il Paese dopo l'elezione di Masoud Pezeshkian. La sua presidenza potrebbe essere un'occasione per stabilire migliori relazioni con l'Occidente e per cambiare l'assetto sociale ed economico del Paese., soprattutto in termini di stabilità. Nonostante gli spazi della sua azione siano ridotti
Il passaggio di consegne è avvenuto all’insegna della stabilità, nonostante l’urgenza dovuta alla scomparsa del presidente Ebrahim Raisi
Le elezioni presidenziali tenutesi in Iran lo scorso giugno hanno rappresentato un momento di grande importanza per il Paese mediorientale per tre motivi: le tempistiche, il significato interno e quello internazionale. La Repubblica Islamica ha dovuto organizzare una campagna elettorale in tempi record a seguito dell’improvvisa morte del presidente in carica, Ebrahim Raisi, a causa del disastro aereo del 19 maggio. La Guida Suprema, Ali Khamenei, aveva già rassicurato il Paese che l’Iran non sarebbe entrato in una caotica fase transitoria, ma che stabilità e continuità avrebbero caratterizzato il passaggio di consegne al nuovo capo dell’esecutivo. Le elezioni del mese scorso hanno quindi richiesto all’establishment iraniano di dimostrare stabilità nonostante una transizione improvvisa.
Un altro motivo che ha reso importanti le elezioni del 28 giugno è stato l’affluenza al voto. La Repubblica Islamica presenta da anni un trend fortemente negativo e in costante decrescita nei numeri degli elettori. Lo stesso ex presidente Raisi era stato eletto nel 2021 con appena 17,9 milioni di voti su circa 60 milioni di aventi diritto, con un’affluenza complessiva pari al 49% degli elettori. Il contratto sociale interno alla Repubblica appare sempre più deteriorato, e lo si nota sia dalla bassa risposta alla chiamata elettorale (che riguarda non solo la Presidenza della Repubblica, ma anche i membri del Parlamento), sia dalle proteste popolari che dal 2017 si verificano in modo sporadico ma continuo in diverse zone del Paese.
Masoud Pezeshkian, presidnete neo eletto, è riuscito a portare alle urne più cittadini iraniani rispetto al primo turno, mobilitando soprattutto i giovani
La società iraniana, nelle sue diverse espressioni culturali, etniche, sociali e lavorative, è sempre più critica nei confronti di un sistema politico che fatica a rinnovarsi, dove gli spazi del dibattito politico si sono sensibilmente ridotti già dalla contestata rielezione del presidente Ahmadinejad nel 2009, e dove il controllo sulle libertà individuali è sempre più invasivo. Le elezioni di giugno ponevano quindi un grande interrogativo all’élite iraniana, che ha sempre cercato di narrare il momento elettorale come garanzia della stabilità del sistema politico. D’altra parte, la popolazione iraniana appare sempre più disinteressata ai meccanismi che regolano il funzionamento della Repubblica, soprattutto per la sfiducia in cambiamenti strutturali e sostanziali e per l’evidente riduzione degli spazi di dibattito politico che hanno colpito soprattutto il fronte riformista.
Alle elezioni di giugno ha infatti partecipato solo il 39% degli elettori, il dato più basso mai registrato nella storia dell’Iran repubblicano. Tra i sei candidati ammessi a concorrere, è interessante notare che vi fosse solo un membro del clero e solo un candidato centrista, Masoud Pezeshkian. Gli altri erano nomi noti dell’establishment appartenenti alla galassia dei tecnocrati-conservatori, come Mohammad Qalibaf (il sempre sconfitto alle elezioni presidenziali) e Saeed Jalili, un oltranzista già capo del team sul negoziato internazionale sul programma nucleare. Pezeshkian e Jalili sono andati al ballottaggio il 5 luglio, e il primo è riuscito a vincere con il 53,7% delle preferenze e circa 15 milioni di voti. Anche l’affluenza al voto è aumentata del 10% rispetto al primo turno, un segno che dimostra la capacità del neo-eletto presidente di riuscire a mobilitare parte dell’elettorato, presumibilmente giovane.
Pekeshkian è il primo riformista a vincere le elezioni presidenziali iraniane dal 2005. Lo ha potuto fare grazie alle divisioni interne tra pragmatici, oltranzisti, tecnocrati militari e l’ala tradizionalista più moderata
Sebbene per la prima volta dal 2005 troviamo nuovamente un presidente che afferisce al fronte riformista, la vittoria di Pezeshkian non deve essere letta con troppo entusiasmo. Essa denota infatti la sconfitta degli altri candidati, la sfiducia nel sistema elettorale e nella capacità di modificare quelle devianze autoritarie che il sistema iraniano ha imboccato da anni. Le elezioni hanno altresì mostrato la profonda frattura che da anni permea la galassia dei conservatori. È stato proprio a causa delle divisioni interne tra pragmatici, oltranzisti, tecnocrati militari e l’ala tradizionalista più moderata che Pezeshkian è riuscito a vincere e solo in fase di ballottaggio parte dell’elettorato assenta al primo turno ha deciso di andare alle urne.
Ex ministro della salute durante la seconda presidenza Khatami (2001-2005), Pezeshkian è perlopiù un esponente centrista, vicino ai circoli riformisti e sostenuto dagli stessi in fase di campagna elettorale. La sua vittoria non denota un tentativo del sistema di apportare sostanziali riforme, né di proseguire sulla scia dei cambiamenti strutturali che il fronte riformista seguiva negli anni Novanta. Pezeshkian ha in questa fase il ruolo di interlocutore con la società, pur senza essere dotato di strumenti per riuscire a ricucire il patto sociale. È infatti una figura lontana dai nomi conosciuti ed esponenti di spicco dell’establishment che da anni si sono alienati il sostegno della popolazione. Eppure, la sua capacità di introdurre sostanziali riforme appare in parte limitata. Da un lato c’è il funzionamento della Repubblica, che prevede una decentralizzazione del potere e una sovrapposizione degli organi decisionali. Il potere esecutivo non ha piena autonomia ma la sua azione è costantemente negoziata e bilanciata dalle altre istituzioni. Dall’altro lato, c’è una immagine, sia interna che esterna, che la Repubblica deve preservare e su cui il neo-presidente dovrà operare.
Pezeshkian ha inserito nella sua campagna elettorale temi cari all’elettorato giovane e riformista, ma anche positivi per rilanciare il dibattito diplomatico con l’Occidente: liberalizzazioni sociali e il tentativo di dialogare con l’Occidente per eliminare le sanzioni economiche.
Pezeshkian si pone come un moderato, una figura che in questa fase risulta vantaggiosa per l’Iran, sia per gli equilibri interni che per il posizionamento del Paese all’estero. Internamente, l’elezione di un candidato conservatore e oltranzista come Jalili avrebbe ulteriormente alimentato il risentimento popolare, sfociando in nuove e forse più ricorrenti proteste. In politica estera, avrebbe inasprito o addirittura fatto naufragare il lento negoziato sul nucleare con l’Europa. In un contesto internazionale segnato dal conflitto tra Occidente e Russia e dalla guerra in corso a Gaza, la presenza di un presidente come Jalili avrebbe esposto l’Iran a una maggiore insicurezza. Pezeshkian, invece, ha inserito nella sua campagna elettorale temi cari all’elettorato giovane e riformista, ma anche positivi per rilanciare il dibattito diplomatico con l’Occidente: liberalizzazioni sociali e il tentativo di dialogare con l’Occidente per eliminare le sanzioni economiche. Da un punto di vista interno, ridurre il controllo sulle individualità è utile per calmare gli animi e attenuare quel malcontento diffuso nella società iraniana, pronto a riemergere all’occasione. Per quanto riguarda la politica estera, Pezeshkian si è posto nella condizione di voler riaprire il dibattito internazionale. Questa è sicuramente una buona notizia per l’Iran e il suo sistema economico, ma anche per la controparte coinvolta. Il dialogo con l’Iran, infatti, ha sempre rafforzato all’interno della Repubblica le componenti riformiste e pragmatiche, e soprattutto evitato la proliferazione nucleare. Questa necessità diventa ancora più attuale alla luce delle prossime elezioni presidenziali statunitensi che, con una possibile elezione di Donald Trump, farebbero precipitare nuovamente l’Iran nella “massima pressione”.
L’elezione di Pezeshkian è una notizia positiva sia per l’Occidente che intende integrare l’Iran nel contesto internazionale, sia per la stabilità interna della Repubblica Islamica.
La politica estera iraniana non dipende solo dal presidente e dal suo ministro degli Esteri. Anche la Guida Suprema, le forze armate e il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale concorrono a delineare la strategia di politica estera della Repubblica. Questo significa che, nonostante il cambio dell’esecutivo, esiste una linea di politica estera finalizzata a un interesse nazionale che trascende i singoli presidenti e ministri. Pertanto, c’è da aspettarsi un certo grado di continuità rispetto alla precedente politica estera e in particolar modo rispetto al sostegno militare di droni e missili alla Russia, supporto alle milizie sciite nella regione, alleanza commerciale e strategica con la Cina e proseguimento della politica di “sguardo ad Est”. È previsto anche il proseguimento del processo di de-escalation con i vicini arabi, con il riavvicinamento all’Arabia Saudita avviato già oltre un anno fa con l’intermediazione di Pechino. Un presidente centrista può favorire alcune dinamiche, come la distensione diplomatica con l’UE nel contesto del negoziato sul nucleare e il dialogo con Riyad. È importante, tuttavia, che il presidente sia sostenuto dai gruppi militari legati alle Guardie della Rivoluzione Islamica che operano nella regione, le cui azioni spesso tendono a contraddire la linea di polita estera espressa dall’esecutivo.
In definitiva, l’elezione di Pezeshkian è una notizia positiva sia per l’Occidente che intende integrare l’Iran nel contesto internazionale, sia per la stabilità interna della Repubblica Islamica. Il suo ridotto spazio di manovra non deve far credere che il presidente non abbia capacità decisionali, ma piuttosto far riflettere sui tentativi di trovare linee d’intesa e di riuscire a negoziare con tutte le forze coinvolte una chiara strategia di politica estera. Pezeshkian deve dimostrare di poter ridurre il controllo invasivo sulla società e avanzare il rispetto dei diritti umani, anche se le aspettative si scontrano con i numerosi ostacoli interni derivanti dalla complessa composizione e funzionamento della Repubblica Iraniana.