Un articolo di: Paolo Deganutti

Le prime conseguenze della “guerra mondiale a pezzi” sui traffici marittimi si vedono dai costi di un porto chiave come quello di Trieste. Ecco perché questi sono cresciuti e perché il commercio via mare è uno specchio dell'economia globale.

L’Autorità Portuale ha dovuto più che raddoppiare le tasse

Gli effetti della “Guerra Mondiale a Pezzi” denunciata da Papa Francesco incidono ormai visibilmente sul Porto Franco Internazionale di Trieste.
 Da pochi giorni l’Autorità Portuale ha dovuto aumentare del 140% le tasse portuali sulle merci solide per coprire i costi effettivi di funzionamento e sviluppo del Porto Franco Internazionale per fronteggiare “a causa degli sviluppi dell’attualità, una contrazione delle entrate a fronte di un incremento delle uscite, correlate anche alle notorie dinamiche inflattive“. Nonostante il forte aumento nei Punti Franchi del Porto di Trieste permane ”Una tariffa agevolata rispetto agli importi percepiti presso gli altri porti”. Così il comunicato ufficiale dove con “attualità” si allude alla complessa situazione geopolitica e alle sue conseguenze sull’economia europea e locale oltreché alla imminente tassazione imposta dalla UE anche sull’ attività delle Autorità Portuali nonostante quelle italiane siano “Enti Pubblici NON Economici”.
L’ aumento è stato appena rimandato a luglio per le proteste degli spedizionieri. Dall’inizio dell’anno, segnato dal semi blocco del canale di Suez, successivo alle azioni militari yemenite nel Mar Rosso in solidarietà con gli abitanti di Gaza, il traffico (petrolio escluso) è calato di circa il 20% come nel resto dell’Alto Adriatico. Si tenga presente che solo il 10% delle merci transitanti a Trieste riguarda il mercato italiano, mentre il 90% afferisce ai mercati dell’Europa centro-orientale. Nel Mediterraneo occidentale (Tirreno, Spagna), invece, vi è una certa ripresa dovuta al fatto che le grandi portacontainer che hanno circumnavigato l’Africa toccano solo i porti più vicini allo stretto di Gibilterra per poi riprendere la rotta atlantica verso i porti del Nord Europa che beneficiano di questa nuova situazione.
L’allungamento delle rotte ha fatto aumentare i costi di trasporto e dilatato i tempi di consegna, ma sono cresciuti molto di più i noli (prezzi del trasporto) che ora sono fino a sei volte quelli dello scorso anno. 
 Le grandi compagnie di navigazione stanno guadagnando di più, nonostante la generale contrazione dei traffici. Le economie europee, infatti, sono in stagnazione o recessione a partire dalla Germania dov’è saltato in aria, letteralmente e insieme al gasdotto Nord Stream, il modello economico basato sul binomio di energia a basso costo (gas russo) ed esportazioni.
Come ci spiega Stefano Visintin, presidente regionale della Confetra FVG (operatori portuali e della logistica), il semiblocco di Suez e il conseguente allungamento del percorso per l’Indo-Pacifico ha provocato anche un intasamento complessivo di tutti i porti di trasbordo (Pireo, Malta, Port Said, Damietta, Algeciras, Tanger Med, Colombo).
I ritardi per le destinazioni calde del Corno d’Africa e del Golfo Persico ormai si contano in termini di mesi, non di settimane. A puro titolo di esempio, merce imbarcata da Trieste in febbraio è appena sbarcata a Colombo (Sry Lanka) e forse fra un mese sarà consegnata alla destinazione finale in Dubai o in Oman! Quest’anomalia è dovuta a una serie di trasbordi in porti intasati.

 

La “crisi degli Houthi” nel Mar Rosso è pesantissima

E’ positivo invece l’andamento del traffico sull’“autostrada del mare” che collega Trieste alla Turchia movimentando semirimorchi ruotati (ro-ro): dopo un aumento di ben il 25% lo scorso anno sta avendo un calo fisiologico di solo il 2%.
  L’impennata del volume delle merci in transito tra l’Europa e i porti turchi, via Trieste, coincide con quella delle esportazioni dai Paesi centroasiatici ex Urss verso Mosca: Armenia +195 %, Kirghizistan + 151 %, Uzbekistan +53 %, Kazakistan +25 %. Il flusso che coinvolge gli “-stan” avviene anche in senso inverso e riguarda in particolare materie prime e idrocarburi.
 E’ ovvio pensare che una parte del traffico da e verso il Mar Nero e la Russia, abbia preso la strada della Turchia che ha visto così premiata anche sul piano dei traffici commerciali, oltre che su quello diplomatico e di potenza, la sua postura di mediazione e autonomia nello scontro in atto. Al punto che ormai circa metà del traffico, petrolio escluso, del porto di Trieste è d’interscambio tra i porti della Turchia e i mercati dell’Europa centro-orientale. E’ uno dei riflessi dell’affermazione della Turchia come potenza regionale ma con ambizioni planetarie e una forte proiezione sul mare come da dottrina della “Mavi Vatan – Patria Blu” ,elaborata nel 2006 dall’ammiraglio Cem Gürdeniz, fatta propria da Erdogan.

 Invece i traffici con il Mar Nero, che erano tradizionalmente importanti per Trieste, sono ormai praticamente azzerati: il petrolio russo è stato sostituito da quello proveniente ufficialmente da altri paesi, così come le bramme di acciaio che provenivano da Mariupol adesso arrivano dall’Estremo Oriente, mentre l’alluminio arriva dal Golfo Persico, con tutte le difficoltà segnalate.
Prima della crisi bellica tutto il traffico marittimo di Trieste per l’Indo-Pacifico passava per il Canale di Suez, alla cui costruzione la città aveva dato un contributo importante come testimoniato dal fatto che nel 1859 l’imprenditore triestino Pasquale Revoltella fu nominato vicepresidente della Compagnia universale del canale di Suez. 
 Se la “crisi degli Houthi” nel Mar Rosso fosse durata solo un paio di mesi non avrebbe probabilmente determinato grandi sconvolgimenti, ma a questo punto la situazione è pesantissima. Mentre è ormai chiaro che le missioni militari navali occidentali non hanno risolto e nemmeno alleviato la situazione che perdura, aggravandosi, dal novembre scorso, così come la “crisi di Gaza”, che è la vera causa del male da curare urgentemente.
In controtendenza, è aumentato di ben l’8% l’arrivo di petrolio di varie provenienze per l’oleodotto TAL che lo pompa da Trieste alla Baviera soddisfando il 100% del fabbisogno del sud della Germania, il 90% dell’Austria e, da un anno, il 100% della Repubblica Ceca. 
Un probabile effetto dell’ aumento dell’ uso di petrolio (e carbone) in Europa centrale per supplire al calo del gas, in barba ai progetti di riconversione ecologica.

Le “Nuove Vie della Seta”, promosse da Pechino e osteggiate da Washington, prevedevano un importante terminal europeo a Trieste

A livello europeo sono aumentati i traffici via ferrovia con la Cina (+ 9%) in particolare con l’ hub logistico tedesco del porto fluviale di Duisburg, che ha rapporti importanti con Trieste dove ha partecipazioni a strutture retroportuali come l’Autoporto. Tuttavia i volumi complessivi dei traffici terrestri sono incomparabili con quelli via mare: per il prezzo molto più alto e la difficoltà a bilanciare i flussi d’import con quelli di export.
Come noto le “Nuove Vie della Seta”, promosse da Pechino e osteggiate da Washington, prevedevano un importante terminal europeo a Trieste, che è stato bloccato.
Gli Stati Uniti e il G20 hanno lanciato, in alternativa, la “Via del Cotone” che avrebbe dovuto collegare Trieste e l’Europa centrale con l’India, tramite un immaginifico percorso terrestre attraverso il deserto dai porti sauditi a quelli israeliani: cosa che sarebbe stata resa possibile dagli “Accordi di Abramo” promossi dagli USA. 
 Naturalmente non è stato fatto un solo passo concreto per l’evidente situazione esplosiva in Medio Oriente ma anche, e soprattutto, perché l’India non è nemmeno lontanamente paragonabile per capacità industriale alla Cina. Che utilità hanno corridoi marittimi con paesi ancora insignificanti dal punto di vista industriale?

Il governo italiano ha inoltre promosso insistentemente, tramite convegni e accordi con il governo Zelensky, un’altra idea fantasiosa, concepita per assecondare la sua postura iperatlantista in politica estera: “Trieste porto di Kiev”. 
S’immaginava di fare di Trieste un porto dove imbarcare le granaglie ucraine giunte per ferrovia, nonostante l’ancora irrisolto problema dei diversi scartamenti ferroviari, e da cui, soprattutto, spedire in Ucraina i materiali per la ricostruzione dopo la vittoria di Kiev, data per certa, e la riapertura dei porti di Odessa, Kerson, Mariupol ecc. Naturalmente anche qui nulla di concreto.
 
 Bisognerebbe prendere atto che un vero salto di qualità nello sviluppo dei traffici nel Mediterraneo l’ha fatto recentemente il porto del Pireo (Atene) perché vi ha investito la compagnia cinese COSCO: da 0,5 milioni di TEU nel 2009 a 5,467 milioni nel 2019 preCovid. Infatti ad essere determinante è il gestore dei terminal capace di attirare linee e merci. Ma, come noto, su alcuni vi sono divieti geopolitici a prescindere anche se contrastanti con gli interessi dei territori coinvolti.

 Concretamente, il Porto Franco Internazionale di Trieste ha appena aperto delle nuove linee ro-ro con il Nord Africa, dedicate ora in particolare all’agroalimentare, che lo collegano con Damietta in Egitto e il Marocco. Ma potranno diventare significative solo nel medio periodo, con un processo di nearshoring (avvicinamento delle produzioni) in corso nel Mediterraneo. 
 Inoltre si sta cercando di sfruttare il particolare regime di Porto Franco Internazionale derivato dal Trattato di pace del 1947 per attirare investimenti industriali, produttivi e di servizi di varia natura, intercettando il processo di reshoring in corso.
L’assenza a Trieste di una linea marittima diretta con l’America, nonostante molta parte della produzione della Regione Friuli Venezia Giulia sia esportata verso gli USA tramite altri scali, testimonia della sua natura di Porto Franco storicamente e strutturalmente cerniera tra l’Europa centrale e l’Oriente Vicino, Medio ed Estremo.
 In altre parole un porto votato al traffico marittimo tra le coste del grande continente eurasiatico e del bacino mediterraneo.
Si sta verificando concretamente che l’Occidente a guida americana sta lavorando per il cosiddetto decoupling, eufemisticamente “disaccoppiamento”, tra le economie europee e orientali: cioè per troncare le connessioni che si erano sviluppate proficuamente tra le varie parti dell’Eurasia. Per puri interessi geopolitici che considerano la convergenza d’interessi – e di interconnessioni – tedeschi, russi e cinesi come un pericolo mortale per l’attuale egemonia planetaria.
 Questo tipo di gestione della crisi bellica in atto ha già dato risultati contrari agli interessi europei e ottenuto perfino il taglio menu militari d’importanti arterie come il gasdotto Nord Stream e Suez.
Il porto di Trieste, al contrario, vede il suo unico futuro nella pacificazione del continente eurasiatico, medioriente compreso, e nello sviluppo dei rapporti e delle connessioni tra i paesi che ne fanno parte.
 La sua caratteristica unica, derivante da un trattato internazionale di pace, di Porto Franco aperto a tutti i paesi senza alcuna discriminazione o esclusione, è alla base della generale opinione favorevole alla mediazione e alla risoluzione diplomatica dei conflitti in corso e contraria all’estremizzazione delle contrapposizioni tra stati, a sanzioni e traffici di armi (cui si sono opposti concretamente i lavoratori portuali). 
 Ma c’è chi vorrebbe considerarlo solo come un porto strategico geopoliticamente e per la logistica militare delle vicine basi USA e degli schieramenti Nato nell’Europa Centrale in prospettiva di una radicalizzazione dei conflitti. 
 La visita il 7 luglio prossimo di Papa Francesco a Trieste in chiusura della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici, potrebbe essere un’occasione, indipendente dalla fede di ciascuno, per porre all’attenzione internazionale la volontà di contribuire alla pace e alla convivenza delle popolazioni di queste terre che hanno già pagato un pesante tributo ai due conflitti mondiali e che percepiscono con preoccupazione i venti di guerra che hanno cominciato a spirare.

Giornalista, scrittore

Paolo Deganutti