Uranio USA: Biden blocca la produzione nel Grand Canyon. Bufera politica a Washington

Un articolo di: Redazione

Il senatore americano, John Barrasso, che da anni lotta contro le importazioni di uranio russo, ha accusato il presidente, Joe Biden, di “aiutare i nemici dell’America”. Russia, Kazakhstan e Uzbekistan controllano il 46% dell’uranio importato dagli Stati Uniti. Il possibile avvicinamento tra la Russia e il Niger, uno dei maggiori produttori di uranio nel mondo, ha messo l’Occidente in stato d’allarme.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato la trasformazione in “monumento nazionale” di una zona grande 4.046 chilometri quadrati, intorno al famoso Grand Canyon. Sarà un’area rigorosamente protetta, con il divieto di attività industriali di vario tipo. In primo luogo sarà messa al bando l’estrazione di uranio in quella che è considerata “terra sacra” dalle popolazioni indigene indiane.
Durante la visita l’8 agosto a Red Butte Airfield in Arizona, la prima tappa di un viaggio che porterà il presidente statunitense in New Mexico e Utah, dove dovranno essere annunciate alcune nuove iniziative ecologiche e Biden ha detto: “Preservare questa terra è un bene per il Pianeta, un bene per l’economia perché crea nuovi posti di lavoro nel settore turistico, un bene per l’America: la cosa giusta da fare”. Biden ha anche sottolineato che l’America investirà 370 miliardi di dollari per ridurre entro il 2030 del 40%, rispetto ai livelli del 2005, le emissioni di gas a effetto serra. Sarà accelerato il processo della transizione energetica focalizzata particolarmente nella produzione di batterie per auto elettriche e di pannelli solari.
La designazione della nuova area protetta, che si chiamerà nella lingua dei nativi indiani Havasupai “Baaj Nwaavjo I’tah Kukveni” (Terra delle tribù – orme dei nostri antenati) è stata accolta a braccia aperte dagli ambientalisti. Lo status di “area protetta” proibirà il lancio di nuovi progetti di estrazione di uranio sul sito, senza però “intaccare i diritti minerari esistenti”. Le estrazioni di uranio da quelle parti erano già state ridotte all’osso grazie alla moratoria di vent’anni, decisa nel 2012 dall’allora presidente, Barack Obama.
Mentre i verdi esaltano l’annunciato stop alla produzione di materiale radioattivo, l’iniziativa di Biden ha causato un terremoto politico a Washington. Il senatore repubblicano, John Barrasso, il nemico giurato del commercio di uranio tra gli Stati Uniti e la Russia, ha dichiarato che il divieto della produzione in Arizona aiuta gli avversari dell’America, negando agli americani il diritto di accedere alle risorse di cui il Paese ha bisogno.
“Il presidente Biden ancora una volta ha aiutato i nostri nemici, negando agli americani il diritto di accedere alle risorse di cui abbiamo tanto bisogno. Attualmente importiamo dalla Russia tre volte più uranio di quanto produciamo. Il Senato ha appena votato per aumentare la produzione interna di uranio per eliminare la nostra dipendenza dalla Russia. Eppure, il presidente Biden sta bloccando l’accesso ai depositi chiave di uranio americano e di altri minerali critici per far contento il proprio elettorato di “sinistra”. Questo non è il momento giusto per bloccare l’accesso alle risorse americane”, ha dichiarato Barrasso, autore di “Nuclear Fuel Security Act”, volto ad aumentare la produzione di uranio e di altre materie prime indispensabili per la generazione di energia elettrica.
Vale a dire che gli Stati Uniti non possono fare a meno delle consistenti importazioni di uranio russo che, a differenza del petrolio e del gas, sfugge alle sanzioni occidentali. Lo scorso maggio Newsweek Magazine ha scritto che “il Cremlino tiene ancora saldamente in mano ciò di cui molti Paesi hanno bisogno: il combustibile nucleare. L’arricchimento dell’uranio è un processo molto speciale. Pochi Paesi del mondo, tra cui la Russia, hanno delle tecnologie adeguate. Inoltre le riserve di uranio della Russia sono tra le più grandi al mondo”, ha scritto l’editorialista Anna Skinner, ricordando che “negli Stati Uniti funzionano 93 reattori nucleari che generano oltre il 20% di tutta l’energia elettrica del Paese”. Secondo Skinner, mentre la Germania ha fatto “spegnere” i propri reattori, in America considerano le centrali nucleari come un “importante fattore positivo della lotta contro i cambiamenti climatici”.
La Russia dispone del 9,15% delle riserve globali di uranio e ha la più grande capacità tecnica e tecnologica di arricchimento di materiali fissili che, secondo la World Nuclear Association, raggiunge il 43% della capacità globale: un valore maggiore di quello di Francia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito messi insieme.

I Paesi del mondo con maggiori riserve di uranio

1. Australia 31,18% delle riserve mondiali
2. Kazakhstan 11,81%
3. Russia 9,15%
4. Canada 8,8%
5. Sudafrica 6%
6. Niger 5%
7. Namibia 5%
8. Cina 5%

Dopo l’inizio del conflitto armato in Ucraina il 24 febbraio del 2022 la Russia ha smesso di pubblicare le informazioni dettagliate del proprio commercio con l’estero. Il divieto più rigido riguarda l’export di materiali fissili verso gli Stati Uniti e gli altri Paesi del mondo. Molti esperti affermano però che nei 18 mesi passati i volumi di questo commercio non sarebbero di certo diminuiti. Secondo i dati dell’agenzia Bloomberg, la Russia controlla il 16,5% di tutto l’uranio importato dagli Stati Uniti, mentre il 23% dell’uranio arricchito che le centrali americani usano per i propri reattori arriva dal gruppo statale russo Rosatom: “Rosatom e le società affiliate controllano il 35% del mercato mondiale dell’uranio arricchito”, ha scritto Bloomberg.
Secondo la U.S. Energy Information Administration, l’Agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell’energia statunitense, il Paese importa il 46% dell’uranio dalla Russia, dal Kazakhstan e dall’Uzbekistan, le due repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, considerate tra i più stretti alleati del Cremlino. Come ha dichiarato lo stesso senatore Barrasso “gli Usa spendono più di un miliardo di dollari l’anno per comprare uranio russo”. Lo scorso marzo Barrasso ha presentato un disegno di legge per mettere al bando le importazioni di uranio dalla Russia proponendo, al contrario, di rilanciare la produzione nel suo Stato d’elezione, il Wyoming.
Intanto il commercio Russia-USA sfida le sanzioni e aumenta. Lo scorso maggio (l’ultimo dato disponibile) rispetto al mese precedente l’export russo verso gli Stati Uniti è cresciuto di oltre 2,33 volte. “Dopo aver importato lo scorso aprile materie prime e prodotti dalla Russia per 215 milioni di dollari, nel mese di maggio l’import americano è salito a quota 503 milioni di dollari”, ha dichiarato il console della Russia a Houston, Aleksandr Zakharov, secondo cui “il grande business americano non vuole perdere le opportunità offerte dai mercati della Russia e spera di poter riavviare la cooperazione il più presto possibile”. Oltre all’uranio gli Stati Uniti importano dalla Russia concimi chimici che, per non trovarsi sotto la scure delle sanzioni, sono stati “equiparati ai beni di primissima necessità”. Nel 2021 l’interscambio commerciale tra gli Stati Uniti e la Russia ha totalizzato 34,4 miliardi di dollari dei quali l’export russo è stato pari a 17,5 miliardi di dollari, mentre quello americano ha raggiunto quota 16,8 miliardi.
Molti Paesi del mondo si affidano alle tecnologie nucleari russe. In Slovacchia le due centrali nucleari, gestiti dalla società russa TVEL, generano quasi il 50% dell’elettricità. L’Ungheria ha alcuni accordi con Rosatom per la costruzione di centrali nucleari. Negli ultimi anni la Russia ha promosso molto attivamente la collaborazione nel settore dell’“atomo pacifico” verso il Medio Oriente e l’Africa.
Proprio per questo motivo il recente colpo di Stato in Niger, uno dei maggiori produttori di uranio nel mondo, ha messo l’Occidente in stato d’allarme. Come ha scritto il 3 agosto scorso l’agenzia Bloomberg “il possibile avvicinamento tra il Niger e la Russia aumenterà a dismisura la dipendenza del mondo dalle politiche di Mosca per quel che riguarda l’energia nucleare”.

Giornalisti e Redattori di Pluralia

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