Un articolo di: Tommaso Baronio

Il Memorandum d'Intesa sulla Nuova via della Seta tra Italia e Cina scadrà a fine novembre e per il governo Meloni non è più una questione economica, ma un vero e proprio problema politico

Gli Usa chiedono che il legame con la Cina sia reciso quanto prima, ma Meloni prende tempo, parlando della necessità di un passaggio parlamentare

In questo momento Giorgia Meloni si trova a barcamenarsi tra problemi urgenti come la ratifica del Mes, l’attuazione del Pnrr o la crisi migratoria, ma sul tavolo, un po’ nascosto tra le mille questioni presenti, c’è un dossier che scotta e che nessuno sa davvero come prendere. Si tratta del Memorandum d’Intesa tra Italia e Cina, firmato a marzo 2019 dal primo governo Conte con il presidente Xi Jinping. Un accordo senza un valore internazionale, ma che individuava principi e modalità di collaborazione per la realizzazione della Nuova via della Seta, la Belt and Road Initiative. La Bri è un ambizioso progetto promosso dal presidente cinese per sviluppare un mercato allargato e accrescere il potere economico e politico della Cina. 

L’Italia è stata l’unico paese del G7 a stringere la collaborazione con la Repubblica popolare, non senza subire duri rimproveri da Bruxelles e da Washington. L’intesa tra i due paesi riguarda commercio, trasporti, infrastrutture, cooperazione finanziaria, connettività tra i popoli e cooperazione alla transizione ecologica. E’ stato un evento simbolico nella storia della politica estera italiana degli ultimi anni, ma è una questione che ora torna come un boomerang al governo Meloni, perché il patto scadrà nel 2023 e, se una delle due parti non facesse un passo indietro il trattato si rinnoverebbe automaticamente. 

I DATI 

Secondo gran parte degli studiosi, il memorandum non ha portato grossi benefici al nostro paese, tanto che qualcuno si azzarda a parlarne come una “scatola vuota”. Secondo Bloomberg le esportazioni italiane verso la Cina si sono triplicate in poco più di un anno, dati che anche gli esperti faticano a spiegarsi. Le esportazioni italiane hanno superato i tre miliardi di euro e tutto sarebbe riconducibile a un settore in particolare: quello farmaceutico. In particolare le esportazioni di “medicinali costituiti da prodotti miscelati o non miscelati per uso terapeutico o profilattico, presentati in dosi misurate” sono arrivate a toccare, a febbraio, 1,84 miliardi di euro rispetto ai 98,5 milioni dell’anno precedente.

I dati vanno però tarati anche sul fatto che parallelamente alla crescita delle esportazioni italiane, anche le importazioni di merce cinese hanno registrato un grosso aumento: da 31,7 miliardi a 57,5 in circa quattro anni. 

Per quanto riguarda gli investimenti della Cina in Italia, le cifre si aggirano attorno ai 16 miliardi di euro. Risultato inferiore paragonato agli investimenti in Paesi europei come Regno unito e Germania, in cui Xi Jinping ha speso rispettivamente 51,9 miliardi e 24,8, senza che fossero formalmente parte della Nuova via della seta.

LA POSIZIONE DEL GOVERNO

La scadenza è fine novembre e il mantra della Farnesina al momento è “stiamo riflettendo”. Dai dati è evidente come sia ormai una scelta prettamente politica, non economica, che segnerà irrimediabilmente la politica estera del governo Meloni. La premier, in passato, ha più volte espresso critiche nei confronti del governo cinese, ammorbidendo la posizione una volta in carica. Durante la campagna elettorale, però, sulla Bri ha espresso posizione chiare, ovvero che l’adesione fosse stata un errore. Neanche a dirlo, gli Usa chiedono che il legame con la Cina sia reciso quanto prima, ma Meloni prende tempo, parlando della necessità di un passaggio parlamentare, che ancora non si sa bene cosa significherà concretamente. Giulia Pompili sul Foglio scrive: “A sentire chi segue la materia tra i banchi di Fratelli d’Italia, non c’è ancora una decisione in merito: sembra per ora un’opzione fumosa, tutt’altro che decisa. Tra i banchi dell’opposizione, però, ci si aspetta un vero dibattito parlamentare, e quindi una risoluzione – uno strumento che obbliga al dibattito, certo, ma con il quale il governo ha avuto una brutta esperienza durante il voto sullo scostamento di bilancio del Def, a fine aprile. C’è chi parla poi di un unico passaggio al Copasir, che già in passato si è espresso contro le ingerenze russo-cinesi. In ogni caso, se la decisione dovesse passare per il Parlamento, a contare i favorevoli il risultato sarebbe piuttosto chiaro: la maggioranza voterebbe per l’uscita dalla Via della Seta”.

Una distribuzione della colpa agli occhi della Cina, anche se non è detto che chiudere l’accordo non significherebbe intavolarne un altro. Un’ipotesi che non può essere accantonata leggendo le parole del Ministro Urso in visita a Washington: “La Via della Seta una decisione che il nostro governo prenderà in maniera autonoma, fermo restando che la Cina era, è e sarà un grande partner commerciale. La Cina è un grande Paese con cui possiamo sviluppare accordi e mi auguro anche che aumentino gli investimenti cinesi nel nostro Paese in settori in cui loro possono dare molto per lo sviluppo, pensiamo alla tecnologia green o alla filiera delle batterie elettriche”.

 

Giornalista

Tommaso Baronio