Senza più rivali nel suo partito, 'the Donald' è ormai lanciato verso la sfida di novembre per la Casa Bianca. Di fronte ha Joe Biden, un presidente in caduta di popolarità. E un paese che sembra aver archiviato il trauma dell'assalto al Campidoglio e le responsabilità che all'epoca ebbe Trump
Mancava solo la definizione quantitativa, ovvero la misura della supremazia di Donald Trump in campo repubblicano. E lo score del 5 marzo, super martedì elettorale, l’ha data. Secondo le previsioni e al tempo stesso clamorosa. La conferma che nel giro di otto anni, dalle primarie del 2016, il panorama del Grand Old Party è stato stravolto. Allora, il tycoon sbeffeggiato dall’establishment abbattè uno dopo l’altro la decina di candidati ‘classici’, compreso l’ennesimo alfiere della dinastia Bush. La sua successiva vittoria contro Hillary Clinton, candidata di un partito democratico che si credeva onnipotente, provocò il più grande shock elettorale del dopoguerra.
Quattro anni dopo, contestando la vittoria di Biden e ponendosi quantomeno di fianco ai rivoltosi che davano l’assalto al Campidoglio, l’ultimo brandello di credibilità istituzionale di un presidente imprevedibile e rissoso sembrava stracciato. Ma l’America nel frattempo è cambiata. Scollata all’interno, priva di una bussola condivisa su principi e valori, impaurita dalla progressiva perdita di egemonia mondiale, unita solo nella convinzione del proprio ‘eccezionalismo’, si ritrova oggi intorno a Trump nella stessa misura del 2016.
All’impotenza dei vecchi notabili del Gop, scomparsi dalla scena, si contrappone la supponenza del partito democratico. Incapace di presentare un candidato alternativo a un presidente uscente, Joe Biden, non solo deriso dagli avversari ma a questo punto inviso alla maggior parte degli elettori, democratici compresi. I sondaggi sono impietosi con l’inquilino della Casa Bianca che vorrebbe esibire i buoni risultati in campo economico ma che inciampa, non solo metaforicamente, a ogni uscita pubblica. Un giornale amico dei democratici come il New York Times registra che il 10 per cento degli elettori che votarono Biden nel 2020 adesso sosterranno Trump, e che praticamente nessuno è intenzionato a fare il passaggio inverso.
La guerra a Gaza sta pesando come un macigno sulla credibilità di un presidente che, in nome dei principi e dei valori di un Occidente protettivo contro i ‘malvagi’ del mondo, ha cercato di incarnare l’ennesima versione di un Zio Sam virtuoso. Retorica che attecchisce sempre meno in un’area sempre più vasta del mondo e che trova disincanto nella stessa constituency democratica. Inviare in Medio oriente come negoziatore il segretario di Stato Blinken, da vent’anni assistente del Biden che si proclamava ‘sionista’, non agevola la soluzione del conflitto e nemmeno la trattativa sugli ostaggi. Ai tempi di Reagan e Bush senior a trattare con Hezbollah – che in Libano aveva sequestrato decine di ostaggi – Washington non si esitò a rivolgersi a figure ‘terze’, europee, che riuscirono nell’impresa. Oggi il ‘campo stretto’ in cui si ritrova ad agire la leadership democratica non è in grado di delegare nulla nel timore di apparire ininfluente. Col risultato di esserlo, ininfluente.
Cosa farebbe Trump di nuovo alla Casa Bianca è difficile da prevedere. Gli Accordi di Abramo da lui sponsorizzati devono fare i conti con la risorgenza della Questione Palestinese, che era finita su un binario morto prima del 7 ottobre. Di sicuro, qualcosa di rilevante per disinnescare quel conflitto lo proporrebbe Robert F. Kennedy jr, il candidato indipendente che nel suo programma ha un’America che spegne i conflitti, ovunque. Un ‘pompiere-pompiere’ in contrapposizione alla dinamica ‘incendiario-pompiere’ che ha dominato la fine della Guerra Fredda. RFK jr avrebbe voluto candidarsi alle primarie del partito democratico, il suo partito di riferimento, il partito di suo zio John e di suo padre Robert. Ma Biden gli ha impedito di partecipare. Anche in questo caso con un effetto potenzialmente boomerang. Oggi i sondaggi dicono che RFK jr raccoglie intorno al 15-20 per cento dei consensi. Ancora pochi per diventare Presidente, largamente sufficienti per far perdere Biden.