I grandi media liberal americani mettono in guardia il premier israeliano e il presidente americano. Attaccare la Corte penale internazionale, come all'unisono stanno facendo, è un boomerang per entrambi
Joe Biden e Bibi Netanyahu sono davanti alla tempesta perfetta. Dopo quasi otto mesi di guerra a Gaza il presidente americano si ritrova con la politica mediorientale “a brandelli”, secondo il New York Times. Mentre al di qua dell’Atlantico il premier israeliano si trova a un passo dall’essere un reietto della comunità internazionale. L’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità che collegialmente la procura generale della Corte dell’Aja gli ha rivolto, mettendolo sullo stesso piano dei terroristi di Hamas, non è un incidente di percorso. È il percorso nel quale si è pervicacemente cacciato un leader da sempre incendiario e oggi generalmente considerato estremista. Da due terzi dei governanti del mondo. Ultimi nell’ordine, quelli di Spagna, Irlanda e Norvegia: democrazie conclamate, trascinate alla contrapposizione frontale con il leader dello Stato ebraico dalle forzature, ovvero dalle provocazioni, del premier e del suo governo di (quasi) unità nazionale.
Il combinato disposto della politica di Biden e quella di Netanyahu ha prodotto una critica senza precedenti mossa dal “fuoco amico” ai due sodali attualmente in frizione. In una analisi apparsa il 24 maggio su Foreign Affairs, Oona O. Hathaway (docente di diritto internazionale a Yale, già Consigliere generale del Dipartimento della Difesa Usa) ha puntato il dito sugli errori che la Casa Bianca continua a commettere nel disperato tentativo di difendere Netanyahu. A suo avviso, definire “oltraggiosa” la decisione della Corte penale, come ha fatto il presidente, lasciar dire al fido Blinken che l’amministrazione avrebbe preso in considerazione la proposta di una dozzina di senatori repubblicani intenzionati a sanzionare giudici, dipendenti e i rispettivi familiari del tribunale dell’Aja, è il modo peggiore per esercitare la leadership a livello internazionale ma anche per provare a salvare Netanyahu. “Israele ha ancora un modo infallibile per far deragliare il processo contro Netanyahu e Gallant (il suo ministro della difesa, quello che si è riferito ai palestinesi come “animali umani”, ndr): indagare e, se giustificato, perseguirli direttamente”.
Sarebbe questo l’unico modo per contrastare, sul piano procedurale, l’azione dei giudici internazionali. “Lo Statuto di Roma chiarisce che la CPI può esercitare la propria giurisdizione solo quando uno Stato non vuole o non è in grado di completare un’indagine e, se necessario, perseguire esso stesso un crimine”. Naturalmente, aggiunge Hathaway, è estremamente improbabile che Netanyahu, che sta già affrontando accuse di corruzione, accetti un’inchiesta a suo carico da parte della giustizia del suo paese. Le conseguenze, allora, vanno oltre i confini dello Stato ebraico. “Se Israele non trarrà vantaggio dall’unico modo infallibile per porre fine al procedimento prima che vada oltre, gli Stati Uniti non dovrebbero distruggere la propria credibilità solo per proteggere uomini che hanno ignorato ogni avvertimento”.
Il senso di impunità che sembra aver fagocitato Netanyahu è stato ben spiegato dal New York Times, con la lunga inchiesta del 16 maggio di cui ci siamo occupati la settimana scorsa. Ma lo stesso giornale, liberal per definizione, torna sul dramma Gaza/Rafah per muovere al presidente democratico critiche di rara asprezza.
“Per essere schietti, la politica di Biden a Gaza è stata un fallimento morale, pratico e politico. Ha reso gli Stati Uniti complici della morte di civili, inclusa la morte per fame dei bambini. Ha minato la nostra posizione in Ucraina. A mio avviso, ciò non ha aiutato Israele a eliminare Hamas, a recuperare gli ostaggi o a migliorare la sicurezza a lungo termine. E potrebbe danneggiare le possibilità di Biden di vincere stati chiave come il Michigan”. E per rendere ancora più chiaro il concetto Nicholas Kristof, due volte premio Pulitzer, spiega che “invece di esercitare pressioni ferme su Israele affinché consentisse alle migliaia di camion al confine di entrare a Gaza, l’amministrazione Biden a dicembre ha di fatto bloccato una risoluzione delle Nazioni Unite che avrebbe istituito un sistema delle Nazioni Unite per aggirare il collo di bottiglia delle ispezioni israeliane. Così i bambini sono morti di fame”.
La considerazione di base riguarda il premier israeliano: “Prolungare questa guerra è nell’interesse di Netanyahu, ma non è nell’interesse di israeliani, americani o palestinesi”. Ne consegue un consiglio all’inquilino della Casa Bianca: “suggerisco che (…) Biden agisca con fermezza e ritiri tutte le armi offensive come approccio imperfetto che potrebbe essere solo un passo per alleviare la catastrofe umanitaria, porre fine alla guerra e sostenere quell’ ‘ordine basato su regole’ in cui dice di credere”.
Credere, predicare e praticare non sono funzioni conseguenti, almeno in questa fase di basso livello etico nella politica. Ma Hathaway, nel suo tentativo di far recedere Biden dal seguire Netanyahu nell’attacco alla Corte dell’Aja, argomenta che le ritorsioni americane sarebbero un boomerang per Washington. “Gli Stati Uniti hanno da tempo fatto della difesa della giustizia penale globale un elemento chiave della loro politica estera. Beth Van Schaack, ambasciatrice generale per la giustizia penale globale, viaggia per il mondo sollecitando gli Stati a rispettare i loro obblighi legali internazionali e a garantire che coloro che commettono crimini internazionali siano tenuti a rispondere delle proprie responsabilità. Tali sforzi sarebbero resi inefficaci se si vedesse che gli Stati Uniti sostengono la responsabilità penale solo nei confronti degli oppositori geopolitici”.
Per Hathaway si tratta di “ipocrisia”, per buona parte del mondo di “doppio standard”.