La crisi delle Nazioni Unite si acuisce. A limitarne progressivamente l'efficacia è stato il decadimento del Liberal International Order scaturito alla fine della Seconda guerra mondiale. Per rilanciare il principale foro di mediazione occorre una riforma che gli restituisca una reale rappresentatività, con l'ingresso di nuovi paesi nel Consiglio di sicurezza
In occasione del Summit del Futuro, promosso dal segretario generale dell’ONU Guterres, si sono moltiplicati sui media i commenti sull’inconcludenza dei risultati del lungo dibattito svoltosi in assemblea generale e sull’attuale condizione dell’ONU, definito assai spesso come ormai irrilevante in conseguenza della sua incapacità di contribuire efficacemente alla soluzione delle crisi internazionali che si vanno moltiplicando.
Le soluzioni proposte sono state però tutte ben lungi dall’essere risolutive perché non hanno affrontato la questione essenziale che è alla base della crisi: il mancato impegno comune, in seno all’ONU, di tutti i maggiori fattori di potenza del sistema internazionale nel concordare ed imporre un’adeguata soluzione delle crisi che si vanno producendo.
Un’organizzazione per la tutela della sicurezza collettiva può essere realmente efficace ed incisiva solo se riesce a coinvolgere tutti i fattori potenza determinanti del sistema internazionale nell’adozione delle sue decisioni e nella loro attuazione. L’ONU oggi non è in grado di ottenere questo per una duplice carenza:
1) in contrasto con la situazione esistente al momento della sua creazione, il Consiglio di sicurezza, ovvero l’organismo incaricato delle decisioni sull’uso della forza, non include quelli che sono oggi tutti i principali fattori di potenza del sistema;
2) anche i membri permanenti dell’organismo, inclusi a suo tempo come fattori di potenza determinanti del sistema, non condividono più un concetto comune di legittimità.
I cinque membri permanenti del consiglio sono infatti schierati in due raggruppamenti diversi. Tre di loro (USA, Regno Unito e Francia) sono membri di una alleanza nominalmente regionale, la NATO, e si incontrano regolarmente nel formato G7, esteso ben oltre la dimensione atlantica. Mentre Russia e Cina sono i fondatori dei BRICS, un formato che riunisce una parte sempre più larga di quello che assai efficacemente è stato definito “il Rest”. Una sigla, i BRICS, in cui – come è emerso dal recentissimo vertice di Kazan – continuano a confluire paesi di crescente peso economico, demografico e militare, tutti impegnati nel rafforzamento dei legami reciproci attraverso intensi programmi di collaborazione politica, economica e finanziaria.
Da tutto ciò emerge chiaramente l’esigenza di adeguare la composizione del Consiglio di sicurezza dell’ONU riservando i seggi permanenti agli stati che si vanno ponendo oggi come reali fattori determinanti di potenza del sistema internazionale.
I membri del consiglio di nuova composizione dovrebbero impegnarsi nel definire chiaramente le regole sui cui fondare l’Ordine Internazionale che dovrebbero gestire, precisando il significato del ricorrente riferimento al rules based order delle dichiarazioni del G7, dell’Unione Europea etc., e chiarendo l’equivoco ormai diffuso sul concetto di liberalismo internazionale, che gli occidentali invocano come proprio criterio di azione e il “rest” critica invece pesantemente.
Equivoco perché all’indomani della seconda guerra mondiale i vincitori del conflitto instaurarono l’Ordine Internazionale liberale e crearono l’ONU come suo garante. Un ordine che l’Unione Sovietica disattese con i suoi alleati durante la guerra fredda, ma che tornò ad accettare, in principio con l’approvazione dell’Atto di Helsinki nel 1975, e concretamente con Gorbaciov e le sue intese con George Bush ad Helsinki nel settembre del 1990.
È stato poi l’Occidente, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, a discostarsi dall’osservanza dell’ordine liberale con le politiche di democratic enlargement di Clinton e del suo successore George W. Bush, che hanno portato all’adozione di misure militari senza l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a cominciare dalla guerra contro la Jugoslavia e dalla messa in atto di iniziative di regime change nei confronti di paesi dei cui governi non si gradiva l’orientamento politico. Per non parlare del fatto che, all’origine della crisi Ucraina, vi è stato il rifiuto del governo di Kiev di riconoscere l’autonomia alle minoranze russofone del Donbass, ampiamente avallata dalle democrazie occidentali.
Questi sviluppi hanno fatto sì che gli Stati Uniti e i loro alleati, pur continuando a definirsi sostenitori dell’ordine liberale, ne abbiano configurato un altro che più propriamente viene definito neoliberale. Questo scostamento dall’ordine originario era stato autorevolmente stigmatizzato dall’allora presidente del Council of International Affairs di New York, Richard Haass, in un celebre articolo su Foreign Affairs del 2017.
Se il rifiuto del liberalismo opposto da autorevoli membri del Rest si riferisce alla formula alterata che ne è stata attuata dall’Occidente negli ultimi tempi, il liberalismo originario rimane una soluzione proponibile e, di essa, i 10 punti di Helsinki rimangono l’espressione più autentica.
Un attento esame delle posizioni assunte sull’ordine internazionale dai BRICS e dai loro esponenti più autorevoli come la Russia, la Cina e l’India rivela come possibile il raggiungimento della piena compatibilità delle loro posizioni con i punti di Helsinki. Anche l’Occidente non potrebbe obbiettare ad un sistema che ponesse alle proprie basi i valori di fondo a cui esso stesso dichiara di fare riferimento. Si avrebbe così una litis contestatio planetaria che potrebbe generare finalmente un concetto di legittimità condiviso, agevolando il raggiungimento del pieno consenso in seno all’organo direttivo dell’organizzazione (nel Consiglio di sicurezza) al cui interno venisse garantita la presenza permanente di tutti i maggiori fattori di potenza, riconoscendo loro anche il diritto di veto, proprio perché – come si è detto in premessa – alla radice dell’effettività delle azioni di un organismo globale di tutela della sicurezza collettiva vi devono essere la partecipazione di tutti i maggiori fattori di potenza del sistema all’adozione delle sue decisioni e il loro impegno nell’attuarle.
La strada per arrivare a questo risultato potrebbe essere la convocazione di una nuova Conferenza di Helsinki, non sulla sicurezza europea ma sulla sicurezza globale. Quindi non più la CSCE ma una Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione Globale (CSCG).