Cina e Taiwan la guerra improbabile

Un articolo di: Pascal Boniface

Sono molte le previsioni fosche sull'esito del braccio di ferro. Ma a Pechino e a Taipei il pragmatismo sembra prevalere sugli scenari apocalittici. Che piacciono molto agli strateghi lontani dall'isola contesa

Mosca e Pechino esibiscono la loro amicizia, ‘forte come una roccia’, e la loro comune intenzione di modificare l’ordine internazionale affinché non sia più dominato dall’Occidente. Se non sono veramente alleati, sono partner essenziali l’uno per l’altro. La Cina aiuta la Russia a eludere le sanzioni occidentali, ma non le fornisce armi. I legami tra la Russia e il mondo occidentale si sono interrotti per un tempo indefinito mentre Pechino vuole mantenere rapporti essenziali per la sua vitalità economica, e quindi per la legittimità del Partito Comunista.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, esattamente due anni fa, la questione della ripetizione di uno scenario bellico in Asia con una guerra della Cina contro Taiwan è stata regolarmente posta e dibattuta. Molti strateghi americani ritengono che ciò sia inevitabile.

L’obiettivo ufficiale della Cina, ripetuto più e più volte dai suoi leader, è infatti la riunificazione. Pechino è intransigente: vuole isolare Taiwan e mantiene relazioni diplomatiche solo con i Paesi che non ne hanno con l’isola. L’elenco dei Paesi che ancora riconoscono Taiwan si è ridotto costantemente per arrivare a non più di 12. Pechino vuole inoltre che Taiwan non faccia parte del sistema delle Nazioni Unite, inclusa l’Organizzazione mondiale della sanità. Ufficialmente la riunificazione dovrà avvenire pacificamente, ma Pechino non esclude il ricorso a mezzi militari. Il che crea un clima minaccioso.

Il principio “una nazione, due sistemi”, messo in atto sotto Deng Xiaoping dopo la restituzione di Hong Kong da parte del Regno Unito, doveva servire da modello per la reintegrazione di Taiwan nella Cina continentale.

La popolazione di Taiwan ora respinge con forza questa riunificazione, vedendo che fine ha fatto il concetto di “una nazione, due sistemi” con Hong Kong, trasformato in “una nazione, un sistema”, quello di Pechino. Solo il 3% dei taiwanesi è favorevole alla riunificazione. Le elezioni presidenziali del 13 gennaio hanno mostrato un attaccamento allo status quo: non proclamare ufficialmente l’indipendenza, che tutti credono sarebbe il fattore scatenante di una guerra, ma beneficiare dell’indipendenza di fatto. Taiwan è una democrazia vivente e il PIL pro capite dell’isola è superiore a quello della Cina continentale (34.000 dollari contro 12.500). Il non riconoscimento ufficiale non impedisce la moltiplicazione dei rapporti. I Paesi più importanti non hanno lì ambasciate ma uffici di rappresentanza e promuovono rapporti bilaterali.

Xi Jinping non sarebbe quindi tentato di usare la forza per completare la riunificazione, divenuta ormai impossibile da realizzare pacificamente? Il parallelo Cina-Taiwan; Russia-Ucraina ritorna dunque con insistenza.

Ma questo confronto è troppo superficiale per corrispondere alla realtà. Le differenze sono numerose e notevoli. Innanzitutto Pechino ha notato le difficoltà causate dal ricorso alla forza da parte di Mosca. Non dobbiamo dimenticare che la Cina è il Paese di Sun Tzu la cui lezione è che il modo migliore per vincere una guerra è non dover combattere battaglie. C’è un’altra grande differenza: Taiwan è un’isola e per invaderla è quindi necessario intraprendere un’operazione più complessa che attraversare un confine con carri armati e fanteria.

Certo, la marina cinese si è rafforzata, ma i punti di sbarco a Taiwan sono pochi e sono fortemente protetti. L’esercito taiwanese si sta preparando alla guerra da molto tempo ed è meglio equipaggiato, meglio addestrato – e meno corrotto – di quanto lo fosse l’esercito ucraino. Inoltre, mentre Joe Biden aveva più volte ripetuto che non sarebbe intervenuto se Mosca si fosse lanciata in una guerra contro l’Ucraina, al contrario ha insistito che sarebbe venuto in aiuto di Taiwan.

Finora la politica americana è stata caratterizzata da un’ambiguità strategica, con Washington che non ha voluto dire in anticipo quali sarebbero state le sue intenzioni e ha lasciato Pechino in attesa. Il ricorso alla guerra causerebbe una crisi economica in Cina. Tuttavia, è l’accesso al consumo e la soddisfazione dei bisogni materiali a fornire al Partito Comunista gran parte della sua legittimità. I nazionalisti cinesi sarebbero senza dubbio felici di riavere Taiwan, ma i consumatori potrebbero facilmente pensare che il prezzo da pagare sia troppo alto per un risultato troppo incerto. Non è detto che Pechino voglia correre il rischio di una terza guerra mondiale scommettendo sul fatto che gli Stati Uniti si terranno lontani dal conflitto, per poi scoprire che gli USA arrivano in soccorso di Taiwan.

Naturalmente esiste il rischio di una spirale, di reazioni scarsamente controllate, e non possiamo escludere completamente il rischio di conflitto. Ma entrano in gioco la deterrenza e l’interesse reciproco, e Pechino deve pensare che avrebbe più da perdere che da guadagnare lanciandosi in un’operazione militare, che porterebbe molti Paesi del Sud del mondo ad allontanarsi dalla Cina e priverebbe la Cina di un argomento di attrazione per i Paesi del Sud rispetto a Washington. Non potrebbe più presentarsi, come fa, come una grande potenza pacifica, a differenza di Washington che alimenta i conflitti attraverso la fornitura di armi all’Ucraina e a Israele.

La Cina non può ufficialmente rinunciare alla riunificazione, ma può dire – e lasciar dire – che l’obiettivo può essere posticipato al 2049, in occasione del centenario della proclamazione della Repubblica popolare cinese. Aumentando le manovre militari, persino le incursioni nello spazio aereo di Taiwan, senza varcare la soglia della guerra.

Taiwan non rivendica la propria indipendenza però continua a vivere in un clima inquieto, che non le impedisce di andare avanti.

Uno status quo fragile, ma preferibile a qualsiasi altra soluzione.

Geopolitologo, direttore IRIS

Pascal Boniface