Germania 1919 – Russia 1991: la Storia si ripete?

Un articolo di: AntonGiulio de Robertis

Gli errori del primo dopoguerra imposti alla Germania sconfitta portarono alla Seconda guerra mondiale. L'hubris dell'Occidente alla fine della Guerra fredda ha prodotto il senso di insicurezza nella Russia post-sovietica. Con il nuovo, pericoloso scenario di confrontazione a cui stiamo assistendo

Secondo un adagio piuttosto diffuso, la storia non si ripete, ma fa molte rime. Una di queste rime, e assai significativa, si è prodotta nel 1991 con l‘emergere della Federazione Russa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. In quell’anno la Russia veniva a trovarsi in condizioni molto simili a quelle della Germania del 1919, appena sconfitta dall’alleanza occidentale nella prima guerra mondiale e severamente regolata dalla pace di Versailles. Per altro, quella sorta di assonanza fra le due date – 1991 e 1919 – giova ad evocare il nesso fra le due situazioni e gli sviluppi immediatamente successivi. Si potrebbe parlare di un nuova Versailles, sostanzialmente venuta a gravare sulla Russia dopo neppure un secolo.
Sono quattro le caratteristiche della Germania del primo dopoguerra che ricorrono nella Russia dell’attuale terzo dopoguerra, dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica proclamato nel dicembre 1991 da Eltsin, presidente della Federazione Russa.
In primo luogo la sottrazione di ampie sacche di territorio popolate da milioni di propri connazionali – tedeschi nel ’19 e russi nel ‘91 – che si trovarono improvvisamente fuori da quella che consideravano la loro patria e assoggettati alla sovranità dei nuovi stati che spesso adottavano nei loro confronti delle misure discriminatorie. La seconda di queste affinità fra la Germania del primo dopoguerra e la Russia degli anni Novanta ricorre nella vita economica dei due paesi. Al momento della resa il Reich era già oberato dalle enormi spese di guerra finanziate con prestiti che la sconfitta rendeva impossibile onorare, avviando la dinamica di un’inflazione che sarebbe diventata galoppante e incontrollabile per effetto dell’ulteriore carico delle riparazioni imposte dal trattato di Versailles. Ciò provocava una significativa alterazione della stessa struttura sociale della repubblica di Weimar e del suo status con effetti politici devastanti.
Analogamente, in Russia, la crisi dell’apparato produttivo e dei faticosi meccanismi di distribuzione del sistema comunista, determinata dalle riforme di Gorbaciov, provocava un’inflazione travolgente, che alla fine del ‘91 diventava iper-inflazione arrivando al 200%. Veniva così a crearsi una nuova classe di magnati, definiti oligarchi: imprenditori improvvisati ma capaci di acquisire con limitato impegno finanziario, grazie al nuovo imperativo delle privatizzazioni, il controllo di grandi complessi produttivi demaniali.
Sia in Germania che in Russia l’elemento militare presentava uno scoramento analogo per le condizione di una sostanziale resa all’avversario senza aver subito una vera sconfitta. La flessibilità di Gorbaciov, nei negoziati per la riunificazione della Germania, fu anche dovuta alla preoccupazione per le condizioni dei militari sovietici che avrebbero dovuto evacuare le loro posizioni e le loro sistemazioni nella Germania orientale. A differenza di quanto avvenuto nella Germania del ’19, però, i maggiori responsabili dell’apparato militare di Mosca, pur al cospetto delle condizioni di disagio e di scoramento di ufficiali e soldati, non furono parte significativa del dibattito politico della federazione russa. L’esercito sovietico diventava un’altra vittima della glasnost. Fino alla perestrojka era stato un’istituzione protetta dal controllo pubblico, al riparo dalle accuse di incompetenza, corruzione o complicità nel declino dell’economia sovietica. La sua reputazione era saldamente fondata sugli allori della vittoria nella seconda guerra mondiale. Annullando la macchina di quella propaganda, la glasnost rivelava enormi sprechi, corruzione, tensioni interetniche, incompetenza e nepotismo al suo interno.
Ma l’affinità più significativa tra la Germania del ’19 e la Russia del ’91 è ravvisabile nel tipo di osservanza delle condizioni concordate per l’uscita dalle rispettive “guerre”, che pur caratterizzate da un diverso tipo di conflittualità avevano avuto ambedue una dimensione mondiale. Nell’ottobre del 1918 la Germania chiedeva l’armistizio e l’apertura di negoziati per una pace basata sui quattordici punti enunciati dal presidente Wilson nel gennaio precedente in un messaggio al Senato americano, indicandoli come il fondamento su cui si sarebbe dovuta costruire una “pace giusta e durevole”. Quei punti prevedevano la tutela dei popoli coinvolti nel conflitto, in base al principio di autodeterminazione, e un contemperamento degli interessi dei vincitori con quelli degli sconfitti. Dalla conferenza di pace di Versailles scaturivano invece delle condizioni assai dure per la Germania, ben lontane dai punti di Wilson, e di conseguenza una pace che si sarebbe rivelata né giusta (ad avviso assai diffuso anche al di fuori della stessa Germania) e tanto meno durevole, rivelandosi, come previsto dal maresciallo Foch, nient’altro che “un armistizio per vent’anni”.
Analogamente, la fine della guerra fredda è avvenuta per passaggi successivi con l’apertura dei colloqui di Reagan con Gorbaciov e la firma del trattato sui missili a medio raggio “eurostrategici”. Ma il momento davvero conclusivo, ignorato largamente da molte analisi e commenti, furono i colloqui di Helsinki fra Bush e Gorbaciov del settembre del ’90. Alla vigilia della riunificazione tedesca e della guerra del Golfo. Colloqui in cui vi fu un principio di reale sinallagma fra i due interlocutori: con gli Stati Uniti che ottenevano l’accettazione da parte russa dell’unificazione della Germania e dell’avvio delle operazioni militari dell’occidente nel Golfo Persico contro le forze irachene che occupavano il Kwait. In pratica, il ritiro di tutte le forze sovietiche stanziate nella Germania orientale e la rinuncia di Mosca a considerare il Golfo un proprio, riservato dominio. La contropartita per Gorbaciov era l’ avvio di quel “Nuovo ordine internazionale”, da lui ripetutamente invocato, e l’assenso di Bush alla proposta di creare un “asse” fra Russia e Stati Uniti su tutte le questioni più rilevanti della politica internazionale.
Concordando la fine della divisione della Germania i due leader liquidavano l’ultima eredità della seconda guerra mondiale, mentre con l’intesa sull’asse – prefigurando la rinuncia al frequente ricorso al veto sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza – restituivano all’ONU la capacità di operare efficacemente come garante della sicurezza collettiva. Quell’asse avrebbe ricevuto nel novembre successivo, al Consiglio di sicurezza dell’ONU, una prima conferma, purtroppo effimera, con il consenso sovietico sulla risoluzione 678 sulla crisi del golfo, che ipotizzava il ricorso alla forza per porre termine all’occupazione del Kuwait. Questo passaggio sarebbe stato definito “uno spartiacque della Storia” da Brent Scowcroft nelle sue memorie, scritte a quattro mani con il presidente Bush. Quell’asse era però fondato sui principi di quel Liberal International Order consolidatosi nel mondo occidentale nel secondo dopoguerra, estesosi progressivamente ai paesi in via di sviluppo e fatto proprio da Gorbaciov con il suo new thinking. La scomparsa dei due protagonisti di questa svolta “storica” provocava una rapida ecclissi di quei principi e delle assicurazioni che Bush aveva dato a Gorbaciov. L’immagine plastica più evidente del tramonto delle intese di Helsinki è l’inversione di rotta dell’aereo che stava portando a Washingtonil primo ministro russo Yvgeny Primakov il 23 marzo del 1999. Inversione imposta nell’apprendere, appunto sull’aereo, che la NATO si accingeva ad iniziare il bombardamento della Serbia senza l’accordo della Russia e senza il passaggio al Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Ma le analogie fra il primo e il terzo dopoguerra non finiscono qui. Anche il progressivo allargamento della NATO a Est evoca il cordone sanitario creato negli anni Venti intorno alla Germania, con la creazione della Piccola Intesa e delle alleanze bilaterali dei paesi della Mitteleuropa e della Polonia. Non rimane che sperare che l’evidenza di queste affinità induca a comprendere quanto sia pericoloso l’allarmismo diffuso da molti responsabili politici e militari. Necessarie sono invece le politiche pacifiche – non pacifiste – che cerchino la soluzione dei problemi esistenti mediante l’individuazione di un equo contemperamento degli interessi di tutti gli attori delle controversie in corso. Coerentemente con quello che, in base agli ultimi risultati elettorali, sembra essere l’orientamento dei popoli. Indubitabilmente ben più pacifico di quello espresso dai loro governanti, su cui sembra allungarsi l’ombra del sonnambulismo del 1914.

Storico Relazioni internazionali, Vicepresidente Comitato Atlantico, visiting Università di San Pietroburgo.

AntonGiulio de Robertis