Donald Trump e la sua corte

Un articolo di: Andrew Spannaus

Due ideologie contrapposte sono già emerse in seno all'Amministrazione. Da una parte quella che fa capo a Elon Musk e ai padroni di Facebook e Amazon. Dall'altra i tradizionalisti che puntano di nuovo su Steve Bannon. In ballo ci sono le strategie su immigrazione e rapporti con la Cina

Nel suo discorso d’addio dalla presidenza, Joe Biden ha voluto lanciare un ammonimento simile a quello di Dwight Eisenhower nel 1961 sul “complesso militare-industriale”. Il presidente uscente ha affermato che oggi “sta prendendo forma una oligarchia di estrema ricchezza…un complesso tech-industriale che potrebbe rappresentare pericoli reali per il nostro Paese”.
È evidente il riferimento ai miliardari di Silicon Valley, che negli ultimi mesi sono corsi ad affiancare Donald Trump. Ci sono quelli che prima si profilavano come democratici, ma ora hanno pensato bene di aprire al nuovo occupante della Casa Bianca: come Jeff Bezos di Amazon e Mark Zuckerberg di Meta. E soprattutto c’è l’amico e consigliere stretto del presidente appena inaugurato, Elon Musk.
Le preoccupazioni in merito al ruolo del padrone di Tesla e SpaceX sono diffuse, visti i chiari conflitti d’interessi insiti nel suo ruolo, e l’attivismo di Musk anche sul fronte politico internazionale. Non esita a commentare gli affari interni dell’Italia, per esempio intromettendosi nella contrapposizione tra il Governo e la magistratura sul trattamento dei migranti. Conduce una campagna contro il Primo Ministro del Regno Unito Keir Starmer, e promuove apertamente l’Alternative fur Deutschland nelle elezioni tedesche.
Lo scontro più acuto, però, potrebbe essere quello che emerge nello stesso mondo trumpiano. Con il suo appoggio, e i suoi soldi, Musk è riuscito a conquistare l’orecchio del nuovo presidente. Ha anche ottenuto un ufficio nella Casa Bianca per il sedicente DOGE, l’organo per l’efficientamento del governo che dovrebbe produrre profondi tagli alla spesa e la riorganizzazione del funzionamento digitale dello Stato.
Non tutti sono contenti. A partire da una delle figure più in vista nel mondo MAGA, Steve Bannon. L’ex stratega della campagna elettorale di Trump del 2015-2016 è ora una voce importante nell’orientare i sentimenti della base. Bannon definisce i grandi del mondo tech “oligarchi”, rappresentanti della visione globalista che andrebbe combattuta. Denuncia il pericolo del “tecnofedualesismo” una minaccia all’ordine umano da parte di chi vuole “piegare la vita umana verso forme tecnologicizzate a non naturali”. E i due si sono scontrati apertamente sulla questione dell’immigrazione: i puristi del MAGA vogliono limitare tutti gli ingressi, mentre Musk e i suoi alleati appoggiano i visti per i lavoratori esperti nel mondo tech.
Ci sono altri campi importanti dove si profila uno scontro tra diverse fazioni dell’amministrazione Trump, sottolineando la differenza tra la visione nazionalista e quella più pragmatica del mondo del business. Tra i più importanti ci sono i dazi, i rapporti con la Cina, e le azioni antitrust. Il partito repubblicano è cambiato negli ultimi anni, diventando decisamente più trumpiano. Tuttavia, rimangono molti sostenitori di una visione tradizionale e liberista, contraria al protezionismo spinto e a favore di una nuova fase di deregolamentazione per stimolare l’economia. Questa posizione si scontra con le istanze populiste e nazionaliste che animano gli attivisti di America First.
Già a dicembre Musk era intervenuto nei negoziati sul bilancio al Congresso per evitare restrizioni sugli investimenti in Cina. Oltre agli interessi diretti della Tesla, la vicenda ha messo in luce le visioni diverse sulla politica commerciale. Le istituzioni americane negli ultimi anni hanno deciso che la crescita della Cina va frenata, per cercare di mantenere la supremazia economica degli USA. La posizione massimalista insiste sulla riduzione drastica dell’interscambio commerciale, andando oltre il ritorno delle sole produzioni strategiche. Musk, invece, rappresenta la fazione più liberale – in questo caso – che vuole continuare la collaborazione economica piuttosto che perseguire la linea dura verso Pechino.
Anche al Tesoro c’è un’esponente del gruppo dei pragmatici. Scott Bessent vede i dazi come uno strumento negoziale per ottenere concessioni, piuttosto che un modo di ridurre l’interdipendenza economica. È l’orientamento che ci si potrebbe aspettare da parte di un uomo di Wall Street. E, se c’è un punto su cui Trump non ha mai rispettato le sue promesse populiste iniziali, è quello di contrastare la grande finanza. Nella nuova amministrazione ci sono più di dieci miliardari in posizioni importanti, alcuni dei quali devono gestire questioni economiche interne ed estere. Nel promuovere politiche che avvantaggiano le grandi imprese e i fondi finanziari, è chiaro che questi personaggi saranno visti come poco allineati con gli interessi della base politica di Trump nella classe lavoratrice. Un’area molto interessante è quella dell’antitrust. L’amministrazione Biden, attraverso la giovane presidente della Federal Trade Commission (FTC), Lina Khan, aveva avviato azioni legali contro Amazon e Meta, accusandole di comportamenti monopolistici nei loro settori. L’obiettivo era di contrastare lo strapotere che si crea quando la stessa società controlla elementi diversi di una piattaforma, come l’infrastruttura, le vendite, la pubblicità e persino le regole sui contenuti.
Tra le Big Tech l’opposizione è stata esplicita. Le critiche a Khan sono venute non solo da Musk ma anche da personaggi che avevano sostenuto Kamala Harris, come il co-fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman. È chiara la posizione del mondo business sul tema, ma i propositi populisti del movimento MAGA vanno nella direzione contraria. Infatti vari personaggi importanti del partito repubblicano hanno espresso il loro appoggio per le azioni antitrust. E non si tratta solo della base: cresce anche la discussione intellettuale sulla tradizione del “Sistema americano di economia politica”, che ha dato vita al connubio tra politica industriale e investimento nel benessere della popolazione.
Qui entra in campo un nome pesante, JD Vance. Da senatore il neo-Vicepresidente ha sostenuto apertamente Khan, e ora è riuscito a piazzare un proprio consigliere, Gail Slater, come viceministro della Giustizia con delega all’antitrust. Inoltre, il sostituto di Khan alla guida del FTC, Andrew Ferguson, promette di continuare le indagini contro “i cartelli anticompetitivi”, seppur focalizzandosi principalmente sulla lotta alla censura. Non escludendo, per altro, di costringere le grandi società a dividersi in più parti. Una speranza per la fazione in contrasto con i sostenitori di una nuova oligarchia a favore dei poteri forti.

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus