Guerre e alleanze, sintonie e criminalizzazioni. Il passato offre una serie di passaggi in cui la cronaca sanguinosa di oggi si specchia nella Storia tumultuosa dei secoli scorsi. Lasciando spazio a paure e speranze
Non è detto che sia per merito della Divina Provvidenza, come teorizzava Giambattista Vico trecento anni fa. Ma l’intuizione del filosofo napoletano sui Corsi e ricorsi della Storia ci invita a non considerare il nostro presente come necessariamente originale, come un unicum. Prendiamo le attuali relazioni tra l’Occidente e la Russia. Si è mai registrata tanta diffidenza a rischio di conflitto? Certamente, e il riferimento unanime è alla Guerra fredda. Ma si tratta di un passo breve, verso il passato. Molto più intrigante è andare più lontano, diciamo di due secoli. Cadiamo giusto all’indomani di avvenimenti europei sconvolgenti, concentrati in un paio di decenni: la Rivoluzione francese, i fermenti libertari che da essa si sprigionarono, e poi le disfatte militari di Napoleone, il suo esilio, i cosacchi a Parigi, la Restaurazione…
Dopo il passaggio dello Zar vittorioso sotto l’arco di Trionfo ci volle l’intelligenza diplomatica di Chateaubriand per ricostruire i rapporti tra Francia e Russia in una logica che oggi definiremmo win-win. Una tessitura avviata durante il Congresso di Verona dell’autunno 1822, con il quale le potenze dell’epoca fissavano i principi da rispettare, e far rispettare, in una fase che voleva sventare ogni nuova aspirazione rivoluzionaria.
In questo contesto esplose a Parigi l’ammirazione per tutto ciò che era russo. I viaggi di studio per e da San Pietroburgo si moltiplicarono. Le missioni commerciali seguirono. Nei salotti culturali si registrarono enfatiche celebrazioni delle novità provenienti da quel mondo freddo e lontano. Lo storico francese Pierre Nora ricorda come la parola chiave che si scambiavano allora nobili e intellettuali alla corte di Francia parlando di Russia fosse “progresso”. Nella Revue encyclopédique del gennaio 1825 è scritto che “la Russia vede crescere con una rapidità prodigiosa non soltanto il numero degli abitanti, ma la loro ricchezza, le loro conoscenze, i loro sentimenti morali, nonché i loro diritti”.
Nello ‘spirito di Verona’, Parigi e San Pietroburgo si ritrovarono più a fianco che di fronte. Come in occasione della spedizione francese ad Algeri, all’inizio dell’estate 1830, incoraggiata dallo zar.
Tre settimane più tardi tutto cominciò a cambiare di nuovo. Le gloriose giornate rivoluzionarie di fine luglio fanno saltare il quadro generale. La Francia è di nuovo scossa. L’anelito liberal della borghesia a erodere il potere dell’aristocrazia diventa contagioso. Belgio, Germania, Italia: dove non si infiammano le piazze si accendono focolai rivoluzionari. In Polonia l’ondata ribellista vuole diventare guerra di liberazione. Dalla Russia. L’ispirazione nazionalista si mescola, a Varsavia, alla rivendicazione contro i principi della Santa Alleanza. I moti della Seconda rivoluzione francese hanno fatto scuola e la Francia parteggia, con i suoi nobili e con i suoi intellettuali, per le truppe che combattono contro i soldati dello zar.
“Niente può rendere conto dell’eccesso di fervore che salutò la rivolta polacca, il delirio di solidarietà bellicista per ‘la Francia del Nord’ alla quale i francesi si sentivano legati da un’amicizia secolare. Articoli folgoranti, tempeste parlamentari, diluvi di libelli, valanghe oratorie: ‘Guerra ai russi! Morte ai russi!’”. Nora, storico dell’Académie Francaise, mette insieme, cronologicamente, gli elementi del nuovo umore verso la Russia. “Tutti gli argomenti ieri invocati dall’aristocrazia in sua difesa, vale a dire le tradizioni storiche e le fedeltà politiche, il gusto per la cultura e la comunanza di religione, di punto in bianco tutta la Francia liberale li volge a giustificazione della sua amicizia con la Polonia. La crisi polacca del 1831 costringe l’opinione francese a scegliere fra la Polonia e la Russia come fra due sistemi di valori incompatibili. Inoltre i polacchi furono così abili da attribuire alla loro lotta un carattere simbolico e sacro”. E ancora: “La fiumana degli esiliati seppe confermare la scelta della subitanea passione. L’attività, la propaganda da esse dispiegate misero a profitto l’indignazione francese e conferirono alle loro rivendicazioni l’autorità di diritti inalienabili, alla loro odissea l’aureola del martirio, all’abbandono del governo francese le sembianze di un tradimento scandaloso. Fin verso il 1835 all’ordine del giorno non ci saranno altro che racconti di fuggiaschi dalla Siberia, le brutalità dei cosacchi, i pezzi di bravura sulla diplomazia della knut”.
Due secoli dopo, fatti salvi i contesti, si possono apprezzare interessanti analogie, mettendo Putin al posto di Nicola I e l’Ucraina nel ruolo della Polonia. Interessante anche il tempo che ci separa dalla stesura dell’analisi storica di Nora: mezzo secolo. All’Eliseo c’era Giscard d’Estaing, al Cremlino Breznev. Per dire.
Nora, a metà degli Anni Settanta del secolo scorso, citava l’ambasciatore di re Luigi Filippo, il barone de Bourgoing, a proposito di quelli che gli anglosassoni chiamano opinion maker: “l’abilità dei nostri scrittori ci rende padroni dell’opinione europea”. Era agosto 1830.
Oggi è un altro storico illustre, stavolta americano, John Mearsheimer, della Chicago University, a mettere in guardia. Hillary Clinton ha definito “un utile idiota” Tucker Carlson e Putin un bugiardo dopo l’intervista che il giornalista americano, ex Fox News, ha realizzato in esclusiva al Cremlino. E questo è il commento di Mersheimer: “C’è così tanta russofobia e così tanta isteria nei confronti di Putin che il solo pensiero di Tucker Carlson che intervista Vladimir Putin fa impazzire molte persone e le induce ad agire in modo stupido. Ed è quello che è successo a Hillary Clinton”.