In una delle fasi più critiche della storia comunitaria l'UE si proietta verso le elezioni dell'8 e 9 giugno più divisa che mai. E difficilmente dalle urne usciranno risultati utili per farle recuperare peso sulla scena globale
1. Se in Europa i parlamenti nazionali perdono ovunque la loro essenza di rappresentanza popolare e vaglio democratico dell’azione dei governi, la sorte peggiore è tuttavia riservata al Parlamento europeo (PE), il quale non ha mai esercitato le funzioni di un’assemblea parlamentare degna di questo nome.
Per ragioni insieme strutturali e contingenti, i risultati che usciranno dalle urne europee nel giugno prossimo lasceranno inalterata la scena politica in un’Europa dove le classi dirigenti sono dileguate nell’asservimento e nella rinuncia, dopo aver fabbricato la parvenza di un’entità democratica incapace di tutelare i propri interessi esistenziali, per di più in un momento drammatico per le sorti del pianeta.
Gli artt. 223-234 e 314 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (TFUE) statuiscono che il potere di iniziativa legislativa, essenza costitutiva di qualsiasi parlamento, non spetta al PE, se non su temi del tutto marginali.
Certo, bontà loro, al PE è concesso di partecipare all’iter formativo delle leggi, ma il motore della produzione legislativa è collocato nella Commissione, organo non elettivo, sottratto alla valutazione dei cittadini e che risponde unicamente alle oligarchie che l’hanno nominata. Il PE può anche sollecitare la Commissione a presentare una proposta di legge, ma questa lo fa se lo ritiene opportuno e comunque le leggi entrano in vigore solo se approvate dal Consiglio, vale a dire dai governi, sulla base dei rapporti di forza. Traducendo tutto ciò in linguaggio politico, la legislazione europea risponde agli interessi dei paesi dominanti, Germania e Francia, gli altri paesi si limitano a qualche limatura coreografica, finendo sempre per piegarsi anche contro i propri interessi strutturali.
Secondo il TFUE, l’adesione di un nuovo Stato membro, gli accordi economici e commerciali, la revisione dei Trattati, le scelte di politica estera e di sicurezza, le procedure elettorali e altre questioni minori richiedono il parere del Parlamento. Un parere, tuttavia, positivo o negativo, resta un parere e dunque a decidere restano sempre Commissione e Consiglio, per di più solo se Germania e Francia – il famigerato Direttorio – sono d’accordo.
L’inganno è poi sofisticato, poiché il PE può invece legiferare pienamente sulla propria composizione, la funzione dei deputati, le commissioni d’inchiesta, la nomina di un ignoto mediatore (sic!) e altre tematiche irrilevanti.
Sulla carta, il PE può approvare mozioni di censura contro la Commissione, ma di fatto un complesso iter procedurale e la praticabilità politica lo impediscono. Infine, i partiti politici dei paesi dominanti votano compatti quando sono in ballo interessi nazionali, senza distinguersi tra destra o sinistra, mentre non è così per i partiti dei paesi gregari, ingenui o distratti.
Quanto alla Banca Centrale Europea (BCE, banca privata), l’organo più rilevante dell’impalcatura europea, il suo statuto la definisce indipendente, mentre, è banale rilevarlo, essa risponde agli interessi dei mercati (non certo dei cittadini) e della Bundesbank, vale a dire dell’oligarchia tedesca, e in seconda battuta francese. Per di più, diversamente dalle altre Banche Centrali e dalla stessa Federal Reserve, la BCE non ha tra i suoi obiettivi la crescita economica e la piena occupazione, ma esclusivamente il controllo dell’inflazione, a perenne salvaguardia della finanza privata di cui è espressione.
La forma, come spesso accade, è anche sostanza, e non è dunque un caso che i Trattati istitutivi (il citato TFUE e il TUE, Trattato sull’Unione Europea) siano illeggibili. Essi possono essere compresi solo da un giurista esperto e navigato: centinaia di articoli, astrusi e zeppi di richiami ad altri testi, deliberatamente concepiti per impedire che il cittadino ordinario possa comprenderne il significato. Obiettivo raggiunto, nessuno li legge.
2. Un fantasma invero si aggira si aggira per l’Europa (in verità, nell’intero Occidente), ma non si tratta del comunismo di Marx ed Engels del Manifesto del 1848, nemmeno nelle sue varianti eterodosse o ammorbidite dall’economicismo socialdemocratico (keynesismo o neo-keynesismo). Oggi il fantasma si chiama confusione, una confusione nella quale si agita il nichilismo di classi dirigenti asservite che in cambio di carriere e prebende si sono piegate all’ideologia dell’immutabilità, mentre le oligarchie dominanti modellano la coscienza popolare manovrando politica, media e accademia, ceti di servizio resi insensibili a ingiustizie, sfruttamento e alienazione.
Sul piano politico, e sempre più anche su quello economico, l’Unione Europea è oggi nulla più di una costola muta dell’impero americano.
Attraverso l’occupazione militare, gli Usa sorvegliano il continente e ne sterilizzano ogni ipotetico percorso di sovranità, se mai ve ne fossero le condizioni intrinseche, a loro volta, va detto, inesistenti. Una moneta comune priva di un vero governo non basta a dar vita a uno stato. La chimerica Federazione Europea è un mito partorito dalla penna di scrittori di fantascienza, che sopravvive solo grazie alla corruzione ideologica e all’ingenuità interessata di esperti e politici professionisti dei paesi del Sud, a consumo intermittente di un popolo sprovveduto: un mito mai codificato in alcun documento o evocato da qualche autorevole leader del continente, dalla conferenza di Messina in avanti.
In ipotesi astratta, l’esistenza di un soggetto internazionale, che alla forza economica (di cui l’Europa ancora in parte dispone) affiancasse un’effettiva sovranità politica, potrebbe irrobustire la dimensione multipolare del pianeta. Tale soggetto però non esiste in natura, non è previsto dai Trattati e verrebbe comunque osteggiato dalle oligarchie finanziarie europee-atlantiche. La sua impraticabilità è basata su ragioni esogene, la sottomissione agli Usa, ed endogene, una tecnocrazia schiavizzata, generatrice di ibridismo istituzionale (né Federazione, né Confederazione) e un deliberato vuoto teleologico.
Quest’ultimo è a sua volta conseguenza della mitologica invenzione di un popolo europeo, la cui esistenza è condizione indispensabile per la nascita di quel sentimento di appartenenza a una medesima comunità. Gli stati non si costruiscono a tavolino. Essi sono il frutto di evoluzioni storiche complesse, linguaggio, costumi, sangue versato, guerre vinte o perse, sviluppo economico e sociale, e altro ancora, tutti fattori essenziali e fondativi di una nazione. E l’Europa è un continente ricco di valori, storia e diversità, ma di certo non è una nazione.
Le quotidiane divisioni e controverse misure di politica economica, che deprimono il benessere dei cittadini europei, ne confermano il vuoto identitario. Nessuna vera Unione prenderà mai vita. Ipotetici governi che nei paesi-guida (Germania e Francia), folgorati sulla via di Damasco, volessero superare la linea d’ombra proponendo un percorso genuinamente europeista – vale a dire una Federazione che operi sulla base del fondamentale principio di solidarietà, che presuppone a sua volta il trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli in ritardo – verrebbero spazzati via a furor di popolo.
Berlino, in specie, lavora a una strategia estranea a ogni prospettiva comunitaria, piegando l’intera Unione ai suoi interessi nazionalisti. Se il successo dell’industria tedesca è il risultato di ingegno e organizzazione, le scelte europee taylor-made sulle caratteristiche mercantilistiche della Germania ne sono però una componente essenziale (valuta troppo debole, insensate politiche di austerità e via dicendo).
La Germania sovraintende alle decisioni adottate a Bruxelles e Strasburgo attraverso una fitta rete di connessioni e condizionamenti su Commissione, eurofunzionari apicali, euro-deputati dei paesi satelliti (Austria, Olanda, Scandinavia ed Europa orientale), minacce indirette ai paesi con alto debito e altro ancora.
Joseph Stiglitz (1) e Ashoka Mody (2) in due volumi illuminanti rilevano che a partire dall’introduzione della moneta comune e malgrado le (timide) misure correttive adottate dopo il 2008, i redditi europei restano ben al di sotto di quelli che sarebbero stati raggiunti con il tasso di crescita pre-euro. Secondo la Germania, rileva il premio Nobel, tutti i paesi dovrebbero accumulare avanzi commerciali e risparmi, come si trattasse di un valore etico. Ma, a parte la strumentalità valoriale, è l’aritmetica a smentire che non tutti possono registrare eccedenze. In tale schema malato, le nazioni deficitarie sono destinate a finire nella morsa di crisi strutturali, caduta della domanda, deflazione sociale e disoccupazione. La causa della cosiddetta stagnazione secolare è invero una domanda debole, che nel dibattito europeo – insieme all’abnorme avanzo commerciale tedesco – è tenuta in sordina rispetto al presunto fardello del debito pubblico, che fuori dall’euro troverebbe un tranquillo percorso di rientro, mentre la gabbia della moneta comune impedisce alle economie strutturalmente diverse il ricorso all’oscillazione delle parità e all’inflazione, da sempre cure fisiologiche tra economie che presentano diversi livelli di produttività.
L’eurozona, tuttavia, non è solo un’area asettica di cambi fissi tra sistemi economici diversi, essendo essa un metodo di governo dell’economia, della società e della politica, funzionale a un capitalismo estrattivo e oppressivo del mondo del lavoro. Persino gli illusionisti di professione riconoscono tali anomalie, ma a loro avviso la terapia consisterebbe nel rafforzarne l’impianto, come se un tossicodipendente potesse essere curato con la somministrazione di dosi crescenti di narcotico.
3. Per chiudere, il progetto europeo è figlio dell’angoscia francese (Mitterand) davanti all’ineluttabilità della rinascita della Germania, che era cresciuta oltre misura con la sua riunificazione alla caduta del Muro. Attraverso la Comunità prima, e l’Unione poi, Parigi si è illusa di poter imbrigliare la potenza tedesca in una rete di perenne negoziazione politica ed economica, mentre le oligarchie dominanti, incuranti delle paranoie parigine, hanno mirato all’essenziale. L’Ue è così divenuta un possente veicolo di consolidamento neoliberista. Senza il vincolo impositivo dell’Unione, in nessun singolo paese europeo, politiche così profondamente antisociali sarebbero state digerite con tanta facilità.
È motivo di sorpresa, ma nulla accade per caso, che l’impalpabile dirigenza europea, oppressa da narcisismo regressivo e incommensurabile cecità, abbia coscienza minima di tale declino, mentre l’Ue – la cui popolazione tra 12/15 anni scenderà dal 7 al 5 per cento di quella mondiale – viene relegata alla periferia di un mondo con caratteristiche americane (decrescenti), cinesi o di altri (in crescita), ma in ogni caso non più europee.
È inoltre facile profezia affermare che i funzionari Ue che in estate subentreranno ai logorati von der Leyen & associati, se i loro magheggi di tenersi aggrappati a quelle poltrone non avranno avuto successo, saranno scelti per la loro propensione all’obbedienza, non per la loro competenza. Si dovrà poi trattare, anche nel loro caso, di obbedienza cieca, anche a costo di contribuire alla distruzione dei valori e della prosperità dell’Europa.
A poche settimane dal voto, del resto, il dibattito è privo di consistenza. I temi cruciali sono ignorati, nessuno riflette sulle ragione masochistiche che inducono le classi dirigenti a piegarsi alle direttive imperiali che stanno depredando i residui asset europei (a beneficio delle corporation Usa), a elevare un muro autodistruttivo sui rapporti fino a ieri mutuamente proficui con la Cina, ad abbracciare con risultati autopersecutori l’espansionismo bellicista anti-russo, a nascondere le responsabilità di una diplomazia insensibile davanti ai disumani massacri di Israele a Gaza. Prima o poi, la storia insegna, una diversa classe dirigente si affaccerà sulla scena europea, ma non questa volta.
Sul piano globale, infine, lo statuto di minorità imposto dal blocco atlantista non consente all’Europa di proiettarsi nella dimensione euro-asiatica (in forma complementare non alternativa all’euro-atlantismo), in un orizzonte da considerarsi naturale in una massa continentale che non presenta soluzione di continuità tra Asia ed Europa. Si tratta di un orizzonte ricco di straordinarie opportunità, generatore di pace, stabilità e sviluppo per tante nazioni, verso il quale l’Europa avrebbe potuto guardare con entusiasmo al momento dell’implosione sovietica. Malauguratamente, la sua debolezza assiologica, l’inconsistenza delle sue classi dirigenti e la forza impositiva dell’alleato-padrone lo hanno impedito. Alla luce di tutto ciò, le elezioni europee non rappresentano dunque un evento politico, ma al massimo un frammento di notizia.
(1) J. Stiglitz, L’euro, come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi, 2017
(2) Ashoka Mody, Euro: una tragedia in nove atti, Ed. Castelvecchi, 2020