Tre mesi dopo le elezioni anticipate volute da Macron nasce un governo di minoranza guidato dai Partiti sconfitti alle urne. Un governo fragile che deve fare i conti con una situazione economica preoccupante e una società più inquieta che mai
Alla fine la Francia ha un governo. Più di due mesi e mezzo dopo il secondo turno delle elezioni legislative che non ha prodotto alcun vincitore con la maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale, un ritardo senza precedenti nella storia della Quinta Repubblica, il Presidente della Repubblica ha chiesto a Michel Barnier di formare un esecutivo. Macron ha rifiutato di dare soddisfazione alla coalizione del Nouveau Front populaire (Nuovo Fronte Popolare), che conta il gruppo più numeroso di deputati e che, dopo lunghe discussioni, ha proposto come primo ministro Lucie Castets, un’alta funzionaria del Comune di Parigi sconosciuta al grande pubblico. Ha anche escluso altre ipotesi, tra cui quella di Bernard Cazeneuve, ex primo ministro socialista la cui candidatura è stata silurata anche dai suoi stessi ex amici di sinistra. La sua scelta è caduta su un veterano della politica, Michel Barnier, 73 anni (detesta che gli venga ricordata la sua età) del Partito “Les Républicains” che conta solo 47 deputati (ne ha persi un quarto alle ultime elezioni legislative) e che da quasi un decennio raccoglie in media solo il 5-6% dei voti.
L’uomo è esperto. Si tratta di un eletto locale con forti radici nella sua Savoia, che è stato più volte ministro, commissario europeo e negoziatore sulla Brexit con gli inglesi per conto della Commissione europea. Ha portato a termine quest’ultimo compito combinando flessibilità e fermezza, che costituiscono la sua modalità di azione, immediatamente attuata sin dal suo arrivo all’Hôtel de Matignon, sede del governo francese. Non smette infatti di ripetere che bisogna ascoltare “la gente in basso”, un modo per distinguersi da Emmanuel Macron e dai macronisti, molto spesso lontani dagli elettori, e praticare il dialogo, il rispetto, il compromesso. Parole usate più volte nel suo discorso di politica generale pronunciato il 2 ottobre ai deputati, anche se quelli di France Insoumise, la sinistra radicale, continuavano a sfidarlo, a protestare, a gridare.
Michel Barnier deve insistere sul suo metodo tanto più in quanto la politica che vuole attuare si scontra con molteplici ostacoli. In effetti, l’istituzione del suo governo ha richiesto lunghe trattative. Ne fanno parte esponenti poco conosciuti dei repubblicani (12) e del blocco centrale composto da diversi Partiti (27), oltre a varie altri personaggi, tra cui un uomo di sinistra e due personalità della società civile. Si tratta quindi di una sorta di coalizione eterogenea perché non è il risultato di un negoziato preventivo finalizzato alla realizzazione di un programma. Lo ha rivelato il primo ministro, che ha compiuto un pericoloso esercizio di equilibrismo per cercare di soddisfare o, meglio, non offendere le diverse componenti della sua debolissima maggioranza relativa. Potrà infatti contare al massimo, sperando di non subire troppe defezioni, su non più di 230 deputati, quando la maggioranza assoluta è di 289.
Ha indicato che le sue priorità sono il debito finanziario e il debito ecologico. La prima costituisce la priorità delle priorità. La Francia ha un debito pubblico e un deficit considerevoli: quasi 3.200 miliardi di euro e più del 110% del PIL per il primo, e il 6,6% del PIL per il secondo. Per risanare le finanze statali ha annunciato una drastica riduzione delle spese e nuove entrate, ritenute eccezionali. Il Primo Ministro ha annunciato 60 miliardi di risparmi per il 2025. Prevede un sostanziale aumento delle tasse, in particolare sulle grandi imprese e sui regimi fiscali più ricchi, e una riduzione drastica della spesa pubblica, pur riconoscendo la necessità di migliori servizi pubblici e di investimenti in alcuni settori. Vuole inoltre controllare l’immigrazione, garantire la sicurezza dei francesi e contribuire a migliorare il loro tenore di vita. Su quasi tutti questi temi Michel Barnier resta nel vago e dovrà prendere delle decisioni, in particolare in occasione della presentazione del bilancio, per il quale è molto atteso.
Michel Barnier sa che il suo margine di manovra è straordinariamente ristretto. Il suo futuro dipende dal Rassemblement National (il Partito di Marine Le Pen) che per il momento ha accettato di non presentare una mozione di censura contro il suo esecutivo ma può farlo in qualsiasi momento. Spera di ottenere un certo numero di provvedimenti, come ad esempio il cambiamento della legge elettorale, in senso proporzionale, che il Primo Ministro non ha escluso, senza assumere un vero impegno. Barnier subirà una continua guerriglia da parte della sinistra, soprattutto da parte di La France insoumise, determinata a rendergli la vita difficile costringendo comunisti, ecologisti e socialisti a schierarsi con la sua opposizione radicale.
Già adesso si sentono voci discordanti nella sua maggioranza e nel suo governo. Il ministro degli Interni, Bruno Retalleau, deputato repubblicano, rappresentante di una destra sovranista e conservatrice, moltiplica dichiarazioni durissime su immigrazione, sicurezza e giustizia che non piacciono al guardasigilli, Didier Migaud, ex socialista. I centristi macroniani sono divisi tra chi non vuole sentir parlare di aumento delle tasse e chi difende misure progressiste in campo sociale, minacciato – secondo loro – dai ministri conservatori di destra che occupano posizioni strategiche nel governo. Infine, l’inquilino di Matignon deve prendere in considerazione il Presidente della Repubblica che, in apparenza, sembra essere sullo sfondo ma cerca di continuare ad esistere.
Questo del resto è uno dei principali insegnamenti della sequenza politica che la Francia ha vissuto.
Sciogliendo l’Assemblea nazionale la sera delle elezioni europee il presidente della Repubblica sperava in un chiarimento. Ha causato confusione – l’Assemblea conta undici gruppi, cosa inaudita sotto la Quinta Repubblica – e danneggiato la sua autorità. Il blocco centrale ha perso un terzo dei suoi deputati. Molti dei suoi sostenitori lo criticano per la sua decisione e, sapendo che è alla fine del suo mandato, non si considerano più suoi vassalli. Inoltre, Emmanuel Macron sta battendo ogni record di impopolarità. Infine, per tutte queste ragioni, non è più un leader politico giovane, innovativo, di grande impatto, pieno di idee per rafforzare la costruzione europea. La Francia è indebolita, così come la Germania per altri motivi, e ciò contribuisce alla paralisi di un’Unione europea già molto divisa, mentre devono essere affrontate sfide considerevoli.
Allora cosa può succedere? Difficile dirlo in questa fase. Il governo ha il tempo contato. Dipende da cosa decideranno e faranno le due opposizioni, quella del Rassemblement National e quella della sinistra. Tuttavia, la vita politica nazionale è determinata dalla scelta del Capo dello Stato a suffragio universale. Due leader vogliono elezioni presidenziali anticipate: Jean-Luc Mélenchon non lo nasconde, Marine Le Pen non lo dice ma ci pensa molto. Sono entrambi pronti e sperano di affrontarsi al secondo turno. Il giorno in cui i due decideranno che sarà giunto il momento dello scontro, cercheranno di far cadere il governo. Se riusciranno a raggiungere i loro obiettivi, il che presuppone che abbiano convinto altri deputati alla loro causa perché insieme non hanno la maggioranza assoluta, sperano che alla fine il Presidente della Repubblica getterà la spugna. O perché non riuscirà a formare un nuovo governo, o perché dopo aver sciolto nuovamente l’Assemblea nazionale, la confusione sarà ancora maggiore con un emiciclo parlamentare ancora più frantumato.
Tuttavia, è poco probabile che uno scenario del genere si realizzi. Perché, al contrario, gli altri contendenti all’Eliseo hanno bisogno di tempo per prepararsi a questa scadenza. E ce ne sono molti. A destra Laurent Wauquiez. Al centro gli ex primi ministri Edouard Philippe, di ispirazione di destra, come l’ex ministro degli Interni Gérard Darmanin, e Gabriel Attal, un po’ più a sinistra. Costoro si preoccupano di sostenere formalmente il governo e di tanto in tanto lanciano degli avvertimenti. Sul versante della sinistra riformista sgomitano i contendenti: l’ex presidente François Hollande, il primo segretario del partito socialista Olivier Faure, Bernard Cazeneuve, Raphaël Glucksmann, leader del piccolo partito Place publique, Caroline Delga, presidente socialista della regione dell’Occitania o Karim Bouamrane, sindaco di Saint Ouen, cittadina vicino Parigi, fondatore del movimento “Una Francia umana e forte”.
Da qui il paradosso. Questa competizione per l’Eliseo potrebbe permettere a Michel Barnier di resistere, per aggiustamenti, fino alla fine della legislatura, senza fare miracoli, con qualche piccola riforma, facendo il “lavoro sporco” consistente nel risanare i conti pubblici, cosa che scontenterà una gran parte dei francesi. Che osservano tutto ciò con rassegnazione e rabbia, col rischio che la profonda sfiducia nei confronti della politica non faccia altro che aumentare.