Biden cerca di moderare l'offensiva di Netanyahu su Gaza ma la quotidiana strage di civili lo mette in difficoltà. Se Obama aveva definito “insopportabile” la sorte della popolazione palestinese, Nancy Pelosi invoca l'Fbi per perseguire chi chiede il cessate il fuoco. “Una follia” secondo la stampa americana
Per mesi incupiti dal calo della popolarità e dai segni di cedimento fisico del loro presidente, i democratici americani hanno ripreso un po’ di fiducia negli ultimi giorni. Schiacciati dalla prepotenza di Trump in campo repubblicano, capace di schiantare al primo giro Ron De Santis, l’uomo che per tre anni ha incarnato l’alternativa a “The Donald” in seno al Gop, i sostenitori della candidatura di Biden hanno ritrovato il sorriso grazie a qualche sondaggio che è tornato a darlo in vantaggio sull’ex presidente.
Sospiro di sollievo rafforzato dalla schiacciante vittoria di Joe Biden alle primarie del South Carolina, Stato scelto appositamente al posto del caucus nell’Iowa dall’attuale inquilino della Casa Bianca. La necessità di un successo largo nello Stato che gli aveva consegnato la vittoria nel 2020 era ritenuta talmente importante, in apertura di campagna, da mettere nel conto le proteste e il malumore dei democratici dell’Iowa, tradizionalmente i primi a dare lo start alla corsa per le nomine.
Lo staff di Biden puntava su questi successi di immagine in vista delle prossime scadenze che culmineranno nel Super Tuesday del 5 marzo, con 16 Stati al voto, compresa la California. In una corsa che vede Biden quasi contro se stesso, vista la debolezza degli altri candidati.
Ma le buone notizie, per il momento, finiscono qui. Non solo perché alcuni istituti di sondaggio hanno cominciato a testare il gradimento di Robert Kennedy jr, che senza un partito alle spalle e fin qui ignorato dal mainstream, si trova alla pari con Biden, tre punti dietro Trump. Ma soprattutto perché il campo democratico è in preda a spaccature velenose in politica estera.
A far detonare il conflitto tra le diverse anime del partito al potere non è stata la guerra in Ucraina, sulla quale il consenso tacito o entusiastico non è stato finora scalfito da significativi dissensi, ma il conflitto riespoloso tra Israeliani e Palestinesi. Alla brutalità del 7 ottobre dei miliziani di Hamas è corrisposta una reazione brutale da parte dello Stato israeliano che ha suscitato reazioni in tutto il mondo, a cominciare da Israele, dove sotto accusa è finita l’intera politica fallimentare del primo ministro Netanyau.
Le prime mosse di Biden dopo il 7 ottobre, con l’esibito abbraccio a Netanyau, sono risultate indigeste per una parte consistente dei democratici. Quelli che sono scesi in strada per protestare contro un’operazione militare giudicata genocida, come quelli che hanno acceso il dibattito sul ruolo del governo americano nelle università, sui giornali, in televisione. Poi sono arrivate le lettere di protesta di funzionari federali, compresi quelli del Dipartimento di Stato, che hanno rifiutato di sottoscrivere gli atti correlati al sostegno americano a Israele. Una protesta che si è allargata nelle ultime settimane in una dozzina di paesi europei, tutti criticati dall’interno per l’atteggiamento tenuto dai governi in questi quattro mesi.
È arrivata, nel contempo, la denuncia di genocidio, avanzata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, contro il governo israeliano. Con la Corte che ha ordinato a Israele di adottare misure per impedire che venga compiuto un genocidio. Decisione accolta trionfalmente non solo dal governo sudafricano ma anche da molti democratici americani.
La cautela delle ultime settimane di Biden, e l’invio a ripetizione di emissari della Casa Bianca a Tel Aviv per moderare Netanyau, sembrano arrivare tardi per la coscienza di tanti di fronte alle immagini sconvolgenti di migliaia di bambini mutilati, ustionati o uccisi nei raid israeliani.
In questo contesto, una figura apicale del partito democratico come Nancy Pelosi, fino all’autunno scorso speaker del Congresso, ha scelto di schierarsi al fianco di Netanyahu: da perseguire non devono essere i pianificatori della distruzione di Gaza, con i civili che vi risiedevano, ma chi ha protestato contro Israele.
La Pelosi invoca direttamente l’intervento dell’Fbi perché dietro le richieste di cessate il fuoco c’è, a suo avviso, “un messaggio di Putin” , “collegamenti con la Russia”. Un riflesso condizionato che non induce alla prudenza e che rappresenta la scorciatoia interpretativa dei dem, non solo americani, per tutto ciò che di sgradito accade nel mondo.
Nemmeno l’analisi di un democratico molto autorevole come Obama, che già a novembre aveva giudicato “insopportabile” il destino imposto ai palestinesi, riesce a smussare la vocazione di democratici stile Biden e Pelosi. Per la quale signora, un giornale storicamente liberal come il New York Times non ha esitato a sfiorare l’insulto: “Pelosi’s Foolishness on Gaza Protesters -There’s zero evidence that Russia is behind the outcry against Israel’s actions” il titolo e il sottotitolo dell’editoriale firmato da Serge Schmemann.