In attesa che i negoziati tra Stati Uniti, governo israeliano e palestinesi produca un assetto credibile per il governo post bellico della Striscia di Gaza, l'attenzione si concentra sulle fazioni palestinesi. Riusciranno Al Fatah e Hamas a trovare una strategia comune?
Chi governerà la Striscia di Gaza e che fine faranno i palestinesi? Era questo il senso dell’ultimatum lanciato a Netanyahu dal ministro del Gabinetto di guerra Beny Gantz. Il cuore della questione è questo: il modo in cui Israele, i palestinesi e gli Stati Uniti negozieranno con il gruppo islamista determinerà l’accordo con cui mettere fine alla guerra e definire quale sarà il futuro di Gaza.
A otto mesi dall’inizio della guerra israeliana, dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, più di 36 mila palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati uccisi. L’invasione israeliana ha costretto due milioni di palestinesi a lasciare le loro case e spostarsi in altre zone della Striscia. Molti ora sono costretti a vivere in tende di fortuna nella città meridionale di Rafah o nei suoi dintorni. Gli esperti internazionali avvertono che nel nord della Striscia, in gran parte raso al suolo dagli incessanti bombardamenti di Israele, “la carestia è imminente”. I bambini già cominciano a morire perché non hanno da mangiare. A Gaza non ci sono più ospedali efficienti, scuole, università e l’80 per cento delle case è stato distrutto o colpito: in una parola la vita è impossibile.
Con la guerra che continua, il modo in cui i politici israeliani, palestinesi e statunitensi considerano Hamas non è una questione teorica: è un fattore concreto sul campo, tanto quanto i proiettili e i carri armati. È uno degli elementi che definiscono la strategia militare, e determinerà che tipo di accordo sarà raggiunto per mettere fine alla guerra e quale sarà il futuro dei palestinesi.
Su cosa fare con Hamas ci sono, grosso modo, due scuole di pensiero. Uno degli schieramenti in questo dibattito, per lo più composto da esperti di antiterrorismo e della sicurezza americani e israeliani, ritiene da tempo che la ragion d’essere del gruppo sia la sua violenta ostilità all’esistenza di Israele. Secondo questa prospettiva non c’è niente di sorprendente nel 7 ottobre. Al contrario, l’attacco ha dimostrato che la vera priorità di Hamas è distruggere Israele e creare al suo posto uno stato palestinese islamista. Gli esponenti di questa scuola di pensiero indicano la vasta infrastruttura di tunnel di Hamas come una prova del fatto che il gruppo protegge i suoi combattenti, lasciando i civili di Gaza in superficie a cavarsela da soli senza un sistema di rifugi antiaereo.
Uno schieramento opposto, che comprende professori universitari ed esperti sia palestinesi che occidentali, considera Hamas un soggetto politico variegato e complesso, diviso tra tendenze radicali e moderate. Hamas, sostengono, è il prodotto della realtà in cui vivono i palestinesi, ovvero una brutale occupazione e l’embargo. Il problema, secondo questo modo di vedere, è che anche quando i leader di Hamas si sono mostrati aperti alla moderazione, la politica israeliana ha reso impossibile al gruppo seguire questa linea senza che il suo ruolo di ultimo bastione di una seria opposizione a Israele e alla sua occupazione perdesse credibilità tra i palestinesi.
Su tutto questo dibattito aleggia un pericoloso equivoco. Ovvero l’idea, ancora dominante in Israele, per lo meno dentro al governo, che se si elimina la minaccia di Hamas Israele non avrà più problemi con i palestinesi. Ma se anche Hamas svanisse domani il blocco israeliano su Gaza e quello in Cisgiordania non sparirebbero.
C’è la tendenza prevalente a parlare di una guerra tra Israele e Hamas invece che di una guerra tra Israele e i palestinesi, come se Hamas fosse estraneo ai palestinesi e tutto fosse cominciato il 7 ottobre e non 76 anni fa con la Nakba. La differenza tra ora e qualche decennio fa è l’incapacità di affrontare, non solo da parte israeliana, le motivazioni politiche che animano i palestinesi. Può essere duro da accettare ma qualsiasi accordo dopo la guerra che escluda Hamas sarà destinato a ripetere gli errori che hanno portato al conflitto attuale.
L’alternativa potrebbe essere incorporare Hamas e altre fazioni armate estremiste nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dominata dal partito laico nazionalista Al Fatah e riconosciuta come unica rappresentante ufficiale del popolo palestinese a livello internazionale. Nel breve periodo questa soluzione potrebbe essere impraticabile perché Hamas, forte ancora di vasti consensi, avrebbe un potere di veto. Ma a lungo termine, integrare Hamas nell’Olp, potrebbe cominciare a sanare la frattura interna al movimento nazionale palestinese che ha offerto a Israele una scusa per rifiutarsi di partecipare a qualunque negoziato. Non è una strada facile, anzi è assai ardua, ma se Hamas accettasse di rispettare gli accordi firmati tra Israele e l’Olp questo aumenterebbe le possibilità di un accordo di pace duraturo.
Al momento però, come scrive Joshua Leifer in un lungo e dettagliato articolo sul Guardian, sembra improbabile che i leader di Hamas, a Gaza o all’estero, siano disposti ad accettare una prospettiva simile. All’inizio di marzo i suoi rappresentanti, quelli di Al Fatah e di altre fazioni politiche palestinesi si sono incontrati a Mosca per dei colloqui in vista di una riconciliazione. Dopo la guerra tra Hamas e Al Fatah del 2007 ci sono stati più di dieci tentativi di riunificazione sostenuti da diversi governi arabi e musulmani. Nessuno si è mai tradotto in un accordo credibile. Netanyahu e i governi israeliani, che hanno contribuito a mantenere in piedi l’amministrazione di Hamas a Gaza, agevolando il trasferimento di miliardi di dollari dal Qatar al gruppo islamista, ancora una volta giocheranno come in passato sulle divisioni palestinesi per non trovare una soluzione.