Di fronte allo spettacolo della popolazione palestinese vittima di un'offensiva militare che non risparmia nessuno, i richiami alla moderazione al premier Netanyahu da parte del presidente americano sono rari e flebili. Nonostante le proteste di tanti elettori democratici e di un gruppo di senatori dello stesso partito del Presidente
Che succede a Gaza, che succede in Israele, che succederà in Medio Oriente? Ormai da cinque mesi la crisi israelo palestinese è precipitata in una nuova guerra, senza precedenti. Per la durata e per l’assenza di un piano per uscirne. Per il premier Netanyahu l’exit strategy ha un solo sbocco: la distruzione di Hamas e l’annichilimento di qualsiasi velleità dei palestinesi di perseguire la costituzione di un loro Stato. La rigida posizione di Netanyahu tiene conto della sua personale fragilità politica, che lo vedrebbe quasi certamente soccombere al primo confronto elettorale post-bellico. Avviando contro di lui un prevedibile strascico giudiziario per le politiche condotte anche prima dell’assalto senza precedenti di Hamas, il 7 ottobre scorso.
Ma se la prosecuzione dell’offensiva contro i guerriglieri di Hamas, che sta costando la vita a un numero spaventoso di civili, compresi migliaia di bambini, è vissuta dal premier come l’unica possibilità per mantenersi ancora al potere, appare al tempo stesso sorprendente e inquietante l’incapacità di condizionarlo da parte di chi, all’estero, lo ha sostenuto negli ultimi vent’anni.
Stati Uniti e Unione europea sono come rassegnati alla deriva che ha portato un paese di tradizione democratica come Israele sul piano inclinato dell’estremismo.
A partire dalla morte di Rabin – ucciso da un estremista di destra nel momento in cui un accordo per la convivenza dei due Stati risultava a portata di mano, dopo quasi mezzo secolo – i partiti israeliani sono stati calamitati da una concezione sempre più integralista della questione arabo-israeliana. Di pari passo con l’accentuazione del ruolo dei leader ortodossi e della progressione degli insediamenti dei coloni. Dinamica che si sta confermando anche in questo cupo momento per la storia di un paese a cui si à guardato in passato con ammirazione.
Se Léon Poliakov aveva insegnato, con la sua ciclopica opera sull’antisemitismo, cosa fosse stato il purgatorio imposto alle comunità ebraiche nel corso dei secoli, la cronaca di questi anni ci consegna una interpretazione ruvida e militaresca dell’affermazione dello Stato israeliano. Lo sforzo di chiarimento di Abraham Yehoshua, che ancora una quindicina di anni fa aiutava a comprendere quei “concetti da precisare” che erano e sono ebreo, israeliano, sionista, fa oggi fatica a venire a capo di ostilità e pregiudizi.
La negazione dell’altro all’interno di uno spazio conteso lavora nelle coscienze, laiche e non solo, contro la giusta causa della sicurezza del popolo ebraico e del suo Stato. Poliakov, mezzo secolo fa, andava alla radice del felice innesto degli ebrei nel tessuto sociale degli Stati Uniti che li spinse a coltivare “la loro notevole e talvolta aggressiva baldanza, la loro lusinghiera immagine di se stessi, e un’adorazione senza riserve, d’una spontanea ingenuità, per la nuova madrepatria”.
Oggi, in un’Europa costretta nella camicia di forza dei veti incrociati, delle paure latenti per i rigurgiti filonazisti o del terrorismo islamista, si alza sporadicamente la voce di qualche governo, come quello spagnolo, che minaccia di riconoscere unilateralmente lo Stato palestinese. Ma la voce più autorevole per richiamare all’ordine un premier autoreferenziale come Netanyahu sarebbe più che mai quella dell’America. La voce di Washington. Ma la Casa Bianca di Biden, pur sollecitata da voci autorevoli del partito democratico, si esprime tardi e flebilmente. E soprattutto a corrente alternata. Con aleatorie dichiarazioni critiche nei confronti di Netanyahu seguite da decisioni importanti, come il ripetuto veto all’Onu sul cessate il fuoco a Gaza.
La lobby israeliana ha un fortissimo impatto sulla politica americana, sostenevano in un ponderoso saggio del 2007 due storici prestigiosi di Chicago e Harvard come John Mearsheimer e Stephen Walt. Le polemiche di parte, che seguirono alla pubblicazione, incentivarono la diffusione del libro senza scalfire la ricostruzione storica che ne era alla base. Valga per tutte una delle centinaia di citazioni riportate, questa di Henry Kissinger: “Chiedo a Rabin di fare concessioni (ai palestinesi, ndr), e lui dice che non può perché Israele è debole. Allora gli do più armi, e lui dice che non è il caso di fare concessioni perché Israele è forte”.
Sono passati cinquant’anni, da Nixon si è passati a Biden, da Rabin a Netanyahu, e la “timidezza” di Washington è rimasta lo stessa.