Sulle due guerre a ridosso dello spazio europeo le leadership occidentali hanno perso molte certezze. La Casa Bianca non riesce a disinnescare Netanyahu e la sua guerra infinita contro i palestinesi. Per la Ue la Russia "sta dando l'impressione di vincere". E la Nato parla esplicitamente di "rinuncia territoriale da parte dell'Ucraina".

A oltre due anni dall’inizio del conflitto in Ucraina e dopo sei mesi di guerra a Gaza il gergo di molti leader occidentali ha assunto connotati via via differenti. Spostamenti progressivi del comunicare che tradiscono una certa inquietudine.
Alle dichiarazioni ufficiali si affiancano sempre più spesso considerazioni off-the record, dichiarazioni rilasciate in cambio dell’anonimato, retropensieri in libera uscita sul prosieguo del coinvolgimento nei due scontri militari in atto. Che sono più che mai collegati, almeno nell’agenda americana, con il Congresso che continua a frenare il mega pacchetto di aiuti pensato da Biden a favore di Israele e Ucraina, e con le elezioni presidenziali sempre più vicine.
Le certezze offerte finora per plasmare l’opinione pubblica sono adesso meno solide. La vittoria di Kiev, sicura fino a sei mesi fa, è diventata una possibilità, sempre meno probabile. I dubbi degli stati maggiori militari degli Stati Uniti, che già un anno fa classificavano come “difficile” l’obiettivo di Zelenski di riconquistare il Donbass e la Crimea, si saldano un anno dopo con lo scetticismo di americani e europei, che nei sondaggi si dichiarano sempre meno favorevoli alla continuazione del conflitto.
Già Biden e la sua vice Kamala Harris nei mesi scorsi avevano modificato la retorica della Casa Bianca, passando dalla garanzia a sostenere l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” a quella “fino a che sarà possibile”. Differenza sostanziale che discretamente teneva conto dell’andamento sul campo, con la controffensiva di Kiev che si stava trasformando in controffensiva di Mosca. Oggi, con le truppe russe che avanzano e quelle ucraine che stentano a tenere le posizioni, sono le intenzioni di Donald Trump a dettare la linea. In realtà l’ex presidente che vuole tornare alla Casa Bianca tra sette mesi non si esprime direttamente ma fa parlare, senza smentirlo, il suo inner circle. Che vede nella divisione dell’Ucraina, con le quattro regioni del Donbass e la Crimea definitivamente riconosciute alla Russia, la soluzione più semplice. Questo – gli si attribuisce – l’ex tycoon direbbe appena rieletto al presidente ucraino. Una soluzione che Zelenski difficilmente potrebbe ignorare, per quanto indigesta. Già in calo di popolarità, in tensione con i vertici militari, alle prese con una malvista mobilitazione pensata per frenare l’emorragia di truppe al fronte, l’ex attore dovrebbe anche annullare l’incauto decreto con cui ha vietato per legge di negoziare con Putin.
Kiev sa di poter contare sul sostegno europeo ma si rende conto che senza l’architrave finanziario-militare americano questo aiuto, nonostante le rassicurazioni, sarebbe destinato a scemare progressivamente. Per i governi delle repubbliche baltiche, per quello inglese come per quello polacco, in prima fila nell’alimentare la guerra in chiave visceralmente antirussa, ce ne sono molti altri che lasciano trasparire preoccupazione e stanchezza per uno scontro che, oltre a decimare un paio di generazioni di uomini, nel migliore dei casi lascerebbe sul terreno le cose come stanno. Salvo proiettare il conflitto in una dimensione nucleare, e quindi ancora più catastrofica, se agli aiuti finanziari e agli armamenti sempre più letali i paesi occidentali dovessero aggiungere anche proprie truppe al fronte, al fianco di quelle ucraine.
Prospettiva devastante alla quale sembra rassegnato a non credere lo stesso segretario generale della Nato. Dopo la temeraria evocazione di boots on the ground da parte di Macron, e la raffica di no che ha provocato nelle altre cancellerie, a cominciare da quella tedesca, la fase che siamo destinati a vivere nei prossimi mesi si annuncia all’insegna dell’attesa per l’esito delle elezioni americane e, in misura ridotta, per quelle europee di giugno. Non sfugge che la leadership della commissione europea, oggi interpretata in chiave bellicista dalla Von der Leyen, difficilmente potrà essere altrettanto assertiva se in paesi chiave come Germania e Francia l’opposizione alla guerra dovesse premiare i partiti di opposizione, come adesso dicono i sondaggi.
È verosimilmente anche per questo, insieme all’offensiva delle truppe russe sul campo, che Stoltenberg ha a sua volta corretto la propria retorica, introducendo per la prima volta il concetto di rinuncia territoriale da parte di Kiev. Una svolta, arrivata pochi giorni dopo le celebrazioni del 75° anniversario della fondazione dell’Alleanza Atlantica, che lo stesso Stoltenberg ha provato a stemperare inquadrandola nella prospettiva di una “vera pace” che potrà essere raggiunta quando “l’Ucraina prevarrà”. Artificio dialettico per non spiazzare del tutto Zelenski nei giorni in cui il presidente avverte gli alleati, Usa e Nato in testa, che senza nuove armi l’Ucraina perderà la guerra.
Ma Washington deve ora badare altrove. Più di Zelenski, è Netanyahu a turbare Biden e il suo complicato tentativo di farsi rieleggere. Dopo gli abbracci, gli inviti, i consigli, i moniti, le critiche adesso Biden brandisce la minaccia nei confronti dello storico alleato, per impedirgli di proseguire nella vendetta contro Hamas che si è rapidamente trasformata in strage continua di civili a Gaza. Netanyahu, un leader compulsivo che in vent’anni di operazioni militari è riuscito paradossalmente a incrementare il senso di insicurezza degli israeliani, continua imperterrito. Ritira le truppe da Gaza Sud facendo intendere di voler portare la guerra a Rafah, nonostante gli inviti dei vertici militari americani a non avventurarsi in quell’impresa dalle conseguenze umanitarie devastanti.
Il premier israeliano prosegue nella sua strategia non solo perché è l’unica che gli consenta di restare al governo ma perché ritiene che le minacce di Biden siano volatili. Il presidente americano non ha infatti osservato la norma che prevede la sospensione di forniture militari e nemmeno evitato di eludere il controllo del Congresso sui pacchetti di aiuti militari inferiori a importi di 25 milioni di dollari ciascuno. Formattando pacchetti sotto quella misura Biden ha continuato in questi mesi ad autorizzare l’invio di armi a Israele, comprese le bombe da 900 chilogrammi sganciate su Gaza, seguendo la prassi che dal 2016 prevede di destinare all’alleato strategico in Medioriente 3 miliardi e 800 milioni di dollari l’anno in missili, elicotteri, aerei da combattimento.
Nonostante le preoccupazioni per la parte liberal del suo elettorato che protesta per l’acquiescenza nei confronti di Netanyahu, e nonostante il rischio di perdere in alcuni Stati chiave proprio per il sostegno a Israele, Biden esita a concretizzare la minaccia di tagliarne le forniture. Ciò che gli farebbe recuperare consenso in qualche collegio ma che gli farebbe perdere il sostegno del vasto mondo filo israeliano degli Stati Uniti. Una valutazione costi/benefici che il presidente intende portare avanti all’estremo per capire quale decisione, alla fine, risulterebbe meno controproducente per la sua campagna. Gaza, in questa logica, può aspettare.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri