Il boom indiano e lo specchio cinese

I due paesi più popolosi del mondo stanno vivendo uno sviluppo vorticoso: molte le analogie ma altrettante le differenze. Quello iniziato per essere un altro Secolo Americano deve fare i conti con le potenze asiatiche

Da Incredible India! a Inevitable India! Per decenni nei Consigli di amministrazione intorno al mondo ci si era chiesti se fosse opportuno investire in India, un paese in perenne quanto illusoria promessa di crescita. Oggi la domanda è superflua, chiedere a JPMorgan Chase o Apple, a Warren Buffett, il CEO di Walmart, o Elon Musk, proprietario di Tesla… Chi intende navigare nelle acque inquiete del mondo contemporaneo l’India non la trova più sotto la voce vacche sacre o Gandhi, Madre Teresa o Beatles a Rishikesh, ma nel drappello dei corridori in fuga.
Tuttavia, parlare di Secolo Indiano ci sembra una prematura esagerazione. Il nostro è il tempo delle iperboli seguite da letargiche distrazioni, dall’immediatezza unidimensionale dei sound-bites e dei twitt. Il tutto a scapito di quello sguardo lungo con il quale il grande storico Fernand Braudel invitava a misurare il passo della Storia. All’inizio degli anni duemila si era parlato del secondo secolo americano, dopo il primo, quello descritto da Henry Luce nel 1941, che però dovette attendere la fine della Guerra per dispiegare appieno la sua forza: entrambi consegnati ai capienti archivi della Storia; successivamente di Secolo Asiatico, misurato dallo scatto delle Tigri Asiatiche, di cui al fortunato e brillante saggio di Pareg Khanna; poi di Secolo Cinese, figlio del Sogno Cinese del Presidente Xi. Scorciatoie frutto del desiderio di appendere un’etichetta sul collo di un’epoca ibrida e sfuggente, come se il definirla servisse a rassicurarci. Al contrario, in un mondo apolare più che multipolare, preda di policrisi che si susseguono a ritmo incalzante, l’immagine che torna alla mente è quella del mondo di nessuno, descritto da Charles Kupchan, o quello dello Zero Sum Game di Ian Bremmer.
Dunque, un’esagerazione quella del Secolo Indiano, come a suo tempo lo fu la scorciatoia giornalistica di accomunare India e Cina in un’unica mega-entità, Cindia, presto destinata a sgonfiarsi. I due colossi asiatici, che si guardano in cagnesco attraverso le cime dell’Himalaya e che si contendono la leadership del Global South – l’enorme caldera in cui vive l’88 per cento della popolazione mondiale e che produce ormai più di metà del PIL mondiale – non giocano ancora nello stesso girone e forse non lo faranno mai, anche se hanno in comune più di qualche tratto. A cominciare dal senso della Storia, accomunate come sono dal calendario: nel 2047, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, l’India proietta se stessa come paese sviluppato e lo stesso la Cina, a cento anni dalla proclamazione della RPC. Entrambe hanno viva la memoria storica del colonialismo e coltivano un proclamato senso di rivincita; entrambe hanno lo sguardo rivolto al lungo periodo e tessono la propria tela con pazienza, ricordando che fino ai primi decenni dell’Ottocento erano le due prime economie del mondo; entrambe sono campioni nell’elusivo concetto di Asianess, ovvero di estraneità verso l’Occidente. Se è istruttivo leggere i proclami del Presidente cinese Xi sulla marcia cinese verso la modernità, lo sono altrettanto quelli del Primo Ministro indiano Modi, il quale, alla vigilia dell’inizio del voto per le elezioni legislative del 2024 ha dichiarato: “durante il nuovo mandato tracceremo la rotta della nostra nazione per i prossimi mille anni. Faremo dell’India il simbolo della crescita, della prosperità e della leadership globale”.
Ma qui finiscono le similitudini. La Cina ha cambiato il mondo. Saprà fare lo stesso l’India nei prossimi 30 anni? Forse, ma nutrire dubbi è legittimo, quantomeno per prudenza. A virtuale parità di popolazione – ma quella indiana nel 2100 sarà il doppio di quella cinese…. – il PIL indiano è cinque volte più piccolo di quello cinese e l’export del Dragone, da solo, vale quanto l’intero PIL dell’Elefante. Il premio Nobel Amartya Sen ricorda che l’India, negli anni Sessanta, era avanti alla Cina per istruzione e sanità, mentre oggi essa è dietro al Bangladesh e a Sri Lanka ed il reddito pro- capite cinese valeva, nello stesso periodo, il 75 per cento di quello indiano mentre oggi è quattro volte superiore. Il reddito pro-capite cinese nel 1991 era al 158mo posto al mondo ed oggi al 75mo, mentre quello indiano era al 161mo ed oggi al 159mo, dunque non ha scalato posizioni. I salari indiani sono mediamente cinque volte più bassi che in Cina. I contrasti, pur forti in Cina, in India sono esplosivi: Piketty, dalla Paris School of Economics, indica che l’uno per cento della popolazione detiene il 23 per cento del reddito ed il 40 per cento della ricchezza. L’India, la Naya Bharat, ovvero la Nuova India, in quanto a contrasti sociali sta diventando un Billionaire Raj: oggi i potenti non celano più la loro ricchezza come facevano un tempo, non circolano più in modeste auto Ambassador con i vetri tinti, la propria opulenza la ostentano.
Con l’India il bicchiere non è mai pieno o vuoto, lo è sempre a metà. Difatti, se ci si limitasse a leggere le statistiche si farebbe torto alla realtà, che sta iniziando a parlare più hindi che mandarino. Lo stallo economico e sociale della Cina è evidente, dopo 50 anni di crescita ininterrotta, ingenti i suoi debiti e irreversibile la sua crisi demografica: un paese di redditi medi che rischia di diventare vecchio prima di raggiungere il benessere. Al contrario, l’India, con una popolazione di età media pari a 28 anni, sta spingendo sull’acceleratore: esplodono i consumi e corre l’innovazione. La spettacolare espansione della sua classe media prosegue a ritmi straordinari: il numero di famiglie con reddito superiore ai 10.000 dollari annui è passato dai 2 milioni del 1990 ai 70 del 2022 e, secondo l’ONU, 415 milioni di persone sono uscite dalla povertà dal 2005, mentre la percentuale di poveri in cinque anni si è ridotta dal 27 al 16 india per cento della popolazione. Un dato dovrebbe attirare l’attenzione: la quota indiana a livello globale dei servizi ad alta intensità tecnologica è raddoppiata in 15 anni dal tre al sei percento. La Cina continua a puntare sull’export, in difficoltà nel far decollare il proprio mercato interno, per l’India invece non esiste, finora, il vincolo esterno: si può permettere di crescere per i prossimi decenni all’interno dei propri confini. I numeri contano: anche solo il cinque per cento di consumatori abbienti in un paese di 1,5 miliardi di anime rappresenta un mercato pari alla popolazione della Germania. Inoltre, il contesto internazionale appare propizio, con l’India che pare offrire una terza via nel mondo scosso dal confronto tra Stati Uniti e Cina e l’invasione russa dell’Ucraina, con New Delhi contesa dalle cancellerie occidentali, in cerca di un contrappeso a Pechino, un contrappeso di comodo: con l’Occidente l’India condivide interessi, non valori.
L’India si è finalmente messa a correre, l’elefante ha davvero messo le ali ma l’entusiasmo appare prematuro, occorrerà almeno una generazione affinché la strada che ha davanti diventi un’autostrada. Non è scritto da nessuna parte che, se la Cina dovesse avvitarsi sotto il peso delle proprie contraddizioni, l’India sarebbe pronta a prenderne il posto. È il paese con minor reddito pro-capite tra i membri del G-20, è un trentesimo di quello americano e potrebbero occorrere decenni affinché raggiunga quello dell’Indonesia; il 46 per cento della sua popolazione con più di 25 anni non ha finito le scuole primarie; quasi la metà è impiegata in agricoltura ma produce solo il 15 per cento della ricchezza nazionale; l’export indiano costituisce solo il 2 per cento di quello mondiale; non più di una donna su quattro lavora; invia sonde sulla Luna e su Marte ma più della metà dei minori fino ai 14 anni non sa fare moltiplicazioni e divisioni, pur sfornando 1,5 milioni di ingegneri l’anno e 25.000 diplomati dai prestigiosissimi Istituti di alta tecnologia. Inoltre – e ci sembra elemento di riflessione essenziale – la Cina ha beneficiato di un lungo periodo di apertura agli scambi dell’Occidente, ma l’ambiente internazionale oggi è assai meno benevolo. Senza contare che l’India, a causa della propria idiosincrasia nei confronti di patti ed alleanze, è rimasta fuori dalle grandi architetture economiche panasiatiche, mentre ne hanno beneficiato Vietnam, Malesia, Indonesia e Singapore, tutte dirette rivali.
In sintesi, come dicono gli americani: “China got there first”, ed è difficile che Stati Uniti ed Europa siano pronte “ad accogliere” un’altra Cina, che contribuisca a tagliare ciò che rimane della loro industria manifatturiera. Siamo ad un tornate della globalizzazione, che si frammenta ma è tutt’altro che finita, e in un’economia globale che nel 2030 varrà 105 triliardi di dollari, saranno collocate nel Sud del mondo sette delle prime dieci economie, guidate da Cina, india, Giappone e Corea. Ed un osservatore attento vedrebbe che l’Africa non è tutta infeudata a cinesi ed a Wagner, ma ha iniziato, a sua volta, a correre. Nel 2010 il PIL asiatico era il 20 per cento del totale, oggi il 35; i PVS nel 2035 avranno superato il PIL della zona euro-americana; Exxon, la più grande delle vecchie Sette Sorelle, non è più nemmeno quotata nell’indice Dow Jones, mentre la taiwanese TSMC e la coreana Samsung sono i virtuali monopolisti mondiali dei semiconduttori…
In conclusione, l’india non è chopstick Asia e non sarà mai una replica in salsa curry della Cina del ginseng. Ma è tutt’altro che una cattiva notizia, anzi ne contiene due buone: non una dittatura, ma una democrazia, pur chiassosa e venata da rigurgiti identitari, si sta istallando al posto di guida della locomotiva dell’economia mondiale; per la prima volta un PVS si modernizza rispettando le regole del gioco democratico. Di questi tempi non è poco…

ex Ambasciatore d'Italia in India e presso la Santa Sede

Daniele Mancini