Il dilemma di Trump

Un articolo di: Andrew Spannaus

Dal 20 gennaio il tycoon sarà di nuovo alla guida della prima potenza economica. Ma il rieletto presidente dovrà conciliare tra visioni contrapposte che caratterizzano il suo partito. Compreso il rapporto con la Cina

La campagna elettorale è finita, e ora Donald Trump dovrà decidere la direzione della sua seconda presidenza. Per anni ha parlato di America First, promettendo una posizione nazionalista in economia sia all’interno sia verso l’estero. I suoi sostenitori e consiglieri storici sono convinti delle misure protezionistiche, per aiutare i lavoratori americani e per contrastare la Cina. Tuttavia, le differenze con i repubblicani più tradizionali sono già evidenti, e pongono il nuovo presidente di fronte a un bivio: continuare con i propositi anti-globalizzazione, o dare spazio al liberismo di ritorno promosso da personaggi come Elon Musk.
I primi problemi sono comparsi già a dicembre. Il Congresso doveva approvare la nuova legge di bilancio, il che significa continuare con la spesa in deficit, con l’inevitabile aumento del debito pubblico. Esiste un gruppo di iperconservatori che si oppongono per principio, e minacciano di sfiduciare lo Speaker della Camera, Mike Johnson, se non sposerà la linea dell’austerità. Questi deputati chiedono tagli immediati, partendo dalla spesa sociale e sanitaria.
Per Trump si tratta di una strada impraticabile, visto che punta a una grande riduzione delle tasse, ma senza toccare i capisaldi del welfare. Sarà inevitabile un ulteriore aumento del deficit, proprio quello che gli altri repubblicani affermano di voler evitare. Infatti la Camera ha respinto la richiesta del presidente entrante di aumentare subito il “tetto del debito”, il limite tecnico che permette di fare nuova spesa. Alla fine è stata varata una proroga del bilancio di poche settimane, fino a marzo 2025.
Si profila così uno scontro tra la linea Trump, tesa a dare una grande spinta all’economia con l’iniezione di nuove risorse, e quella dei conservatori, determinati a ripristinare la cosiddetta “responsabilità fiscale”.
In teoria si dovrebbero recuperare spazio attraverso la revisione del bilancio affidata alla commissione esterna “DOGE” sull’efficienza del governo. I due responsabili, Elon Musk e Vivek Ramaswamy (ricco imprenditore anche lui, ed ex-candidato alle primarie repubblicane), parlano di tagli enormi alla spesa pubblica, nell’ordine dei trilioni di dollari. Un sogno, per chi sposa l’idea libertaria che lo Stato debba scomparire, ma un incubo per il resto del Paese. Infatti se, come promette Trump, non si toccasse la spesa per la difesa e per le pensioni pubbliche (Social Security) e la sanità per i pensionati (Medicare), sarebbe necessario eliminare gran parte delle altre funzioni governative.
È chiaro che questo non succederà, ma solo impostare la discussione sulla necessità di tagliare, piuttosto che investire, sarà una netta differenza rispetto agli ultimi anni negli Stati Uniti. Tra la prima presidenza Trump e quella Biden, l’approccio è stato di aumentare l’intervento pubblico e dare priorità alle politiche industriali, non certamente ai parametri monetari. In questo modo si è creato, soprattutto dal 2022 in poi, un boom degli investimenti industriali, e anche una crescita importante dei salari. L’inflazione provocata dalle interruzioni del commercio durante la pandemia non ha permesso ai democratici di cogliere i frutti politici di questi progressi, ma è indubbio che una riduzione dei servizi pubblici e degli investimenti farebbe solo male al partito politico che dovesse attuarla.
Oltre a questo dilemma interno, Donald Trump deve decidere come affrontare i rapporti con la Cina. In generale, il Tycoon promette nuovi dazi, con due ordini di obiettivi: da una parte, costringere i partner commerciali ad accettare richieste di altro tipo, per esempio sull’immigrazione o la sicurezza; e dall’altra favorire il ritorno della produzione dentro i confini nazionali. In realtà, è stata l’amministrazione Biden ad attuare le misure più efficaci in questo senso, destinando grandi quantità di risorse agli incentivi per le nuove fabbriche. Questa politica ha fornito lo stimolo per la crescita che i dazi da soli non potevano garantire.
Nei confronti di Pechino, l’amministrazione Biden ha perseguito la linea del “de-risking”, che prevede l’autonomia in vari settori strategici, insieme al tentativo di bloccare il progresso tecnologico cinese nei semiconduttori e in altri campi essenziali. Nel mondo di Trump, invece, si parla ancora di “decoupling”, uno sganciamento netto dalla Cina, e anche dell’eliminazione del deficit commerciale americano. È un obiettivo impossibile nel breve termine ma, come nel caso dei tagli al bilancio, la sola scelta di perseguirlo avrebbe l’effetto di sconvolgere l’assetto economico attuale.
Il principale sostenitore di questa visione è Robert Lighthizer, Rappresentante per il commercio nella prima amministrazione Trump. Per ora sembra che Lighthizer non avrà un ruolo di primo piano nei prossimi anni, mentre i nomi scelti per le cariche economiche più importanti sono più vicini a Wall Street, segnando una prima vittoria per la visione più pragmatica. Tuttavia, si profila uno scontro con i puristi dell’America First, personaggi come Steve Bannon e Stephen Miller, che hanno un peso importante tra la base MAGA.
Anche in questo campo Elon Musk si è fatto sentire. Durante i negoziati al Congresso per la legge di bilancio di fine anno, citata sopra, Musk si è scagliato contro il compromesso iniziale, trascinando Trump dalla sua parte. Pochi giorni dopo si è capito che con questa mossa il padrone della Tesla era riuscito a far togliere una norma che avrebbe bloccato i suoi investimenti in Cina nel campo dell’intelligenza artificiale per l’automotive. Un conflitto di interessi enorme, che ha però evidenziato un altro aspetto del dilemma economico per Trump: il mondo del business, per quanto favorevole all’agenda della deregulation e dei tagli fiscali, vuole mantenere i rapporti commerciali globali, e quindi teme le misure protezionistiche.
Gli ideologi dell’America First spingono una visione autarchica della ricostruzione industriale degli Stati Uniti. Il nuovo presidente dovrà decidere tra il perseguimento della linea ideologica che promuove da anni nella sua attività politica, e il rischio di fissarsi su un obiettivo irrealizzabile, e con grandi incognite per l’economia degli Stati Uniti.

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus