Il doppio standard di Usa e Europa

Nei confronti dei conflitti in corso a Gaza e in Ucraina, Washington, Bruxelles e numerose cancellerie europee esprimono posizioni contraddittorie. Principi e valori vengono difesi o ignorati a seconda delle convenienze. Non senza conseguenze

Gli sviluppi dei conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza registrati degli ultimi mesi hanno evidenziato le ambiguità e le contraddizioni delle posizioni di Unione Europea e Stati Uniti con l’avvicinarsi delle elezioni di giugno e novembre.
Nelle valutazioni dei due conflitti, oggi percepiti come i più gravi in Occidente, il “fattore tempo” gioca un ruolo decisivo nel determinare la postura mutevole di leader e governi. In Medio Oriente, dopo l’attacco terroristico di Hamas al territorio israeliano, europei e statunitensi non hanno esitato a schierarsi al fianco di Israele sostenendo il suo buon diritto di penetrare nella Striscia di Gaza per perseguire l’antico obiettivo di distruggere militarmente le milizie jihadiste palestinesi.
Obiettivo che le Israeli Defence Forces (IDF) avevano fallito in due precedenti occasioni, nel 2009 con l’operazione “Piombo Fuso” e nel 2014 con l’operazione “Margine di protezione”, quando furono indotte a fermarsi dalle pressioni politiche internazionali determinate dalle numerose vittime civili. Difficile credere che questa volta le cose sarebbero andate diversamente, con furiosi combattimenti in un’area popolata da 2,2 milioni di persone lunga 40 chilometri e larga 10.
Inoltre era facile immaginare che Hamas, che aveva pianificato con attenzione l’attacco del 7 ottobre, avesse predisposto anche un potente apparato difensivo per far fronte all’inevitabile rappresaglia israeliana. Il sostegno occidentale alla campagna militare israeliano è durato solo fino a quando le fonti sanitarie palestinesi hanno annunciato che le vittime civili avevano superato le 20 mila unità, bilancio oggi salito a 37 mila anche se nessuna fonte neutrale è in grado di verificarlo.
Una campagna militare che in molti (forse anche in Israele) ritenevano potesse durare due o tre mesi è invece ancora in atto, dopo più di otto mesi, e il suo prolungamento ha di fatto radicalmente mutato la posizione di Stati Uniti ed Europa, determinati ormai da molte settimane a fermare l’offensiva israeliana.
Ci sarebbe molto da dire sull’ormai cronica incapacità di politica e società occidentali di confrontarsi col tema della guerra e delle sue regole, basate sul raggiungimento degli obiettivi e non su scadenze temporali. Ma il repentino passaggio da un sostegno “senza se e senza ma” allo Stato ebraico alle pressioni per un cessate il fuoco ad ogni costo appaiono legate all’impatto di quel conflitto sull’elettorato europeo, chiamato al voto nei giorni scorsi, e su quello statunitense atteso alle urne in novembre.
L’affievolirsi del sostegno occidentale a Israele, le velate minacce statunitensi di sospendere gli aiuti militari e il riconoscimento dello Stato Palestinese da parte di alcune nazioni europee, costituiscono un chiaro indizio delle difficoltà interne dei governi in carica di fronte al moltiplicarsi di manifestazioni nelle università e nelle piazze, negli USA come in Europa, a sostegno della causa palestinese. Le forze di governo sui due lati dell’Atlantico rischiano di precludersi ampie fette di consensi in molti settori della società, a destra come a sinistra, specie nell’elettorato più giovane e presso quello islamico, sempre più cospicuo.
A Washington il problema riguarda soprattutto l’amministrazione Biden e il Partito Democratico, alle prese peraltro anche con l’elettorato ebraico che in parte chiede sostegno totale allo Stato ebraico e in parte critica l’operato del governo di Benyamin Netanyahu. Non a caso gli USA, pur continuando ad armare le IDF, hanno stanziato ben 9 miliardi di dollari per fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza.
La linea imposta a Israele (che non può permettersi di perdere questa guerra) è chiara: pace ad ogni costo a Gaza per non compromettere i consensi dei governi americano ed europei.
Una situazione opposta, ma con motivazioni identiche, si registra nel conflitto in Ucraina, dove il logoramento inarrestabile delle forze di Kiev e la crescente superiorità russa, abbinati alle sempre più gravi difficoltà occidentali a fornire armi e munizioni, potrebbero determinare il tracollo delle forze armate ucraine.
Difficile credere che la situazione militare possa venire rovesciata anche alla luce del tracollo del “fronte interno” ucraino: dopo gli inutili massacri a Bakhmut e nella controffensiva del 2023, gli arruolamenti sono crollati, molti uomini vivono nascosti per sfuggire agli agenti reclutatori e Kiev chiede ai paesi europei di rimandare forzatamente in Ucraina gli uomini abili alle armi che lasciarono il paese insieme ai loro famigliari subito dopo l’inizio della guerra.
Come confermano le dichiarazioni “bellicose” del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg e dell’alto commissario UE per la politica estera Josep Borrell, in Ucraina l’obiettivo dei governi statunitense ed europei è prolungare l’agonia dell’Ucraina almeno fino alle tornate elettorali, per evitarne un tracollo che travolgerebbe in termini politici e di consensi i leader e i governi che hanno voluto e alimentato il confronto con Mosca.
Una tempesta che si sta già abbattendo sull’Europa, dove i governi delle nazioni che hanno fornito gli aiuti militari più consistenti a Kiev e continuano a sostenere la necessità di prepararsi alla guerra contro la Russia hanno subito rovesci che non è difficile collegare alle posizioni assunte nel conflitto e alle loro conseguenze anche economiche, dalla de-industrializzazione alla recessione fino alle previsioni di nuovi forti rincari energetici.
In Gran Bretagna non c’è stato bisogno del voto per mettere in crisi il governo conservatore di Rishi Sunak, che sembra determinato a perdere le prossime elezioni con la promessa di ripristinare la leva obbligatoria in caso di vittoria contro i laburisti, oggi grandi favoriti. Il voto dell’8 e 9 giugno ha già costretto alle dimissioni il governo a Parigi (dove Emmanuel Macron si era appena impegnato a inviare in Ucraina aerei Mirage 2000 e truppe francesi), con un immediato impatto sui mercati, ma ha anche accelerato la crisi del governo tedesco di Olaf Scholz (che più di ogni altro esecutivo europeo ha donato armi e munizioni a Kiev), con la SPD ampiamente superata non solo dalla CDU ma anche da AfD.
A conferma dello stretto legame tra guerra ed esito del voto in Germania, un sondaggio effettuato dall’istituto INSA ha rilevato che il 51 per cento dei tedeschi non crede nella vittoria dell’Ucraina e il 58 per cento è convinto che il sostegno della Germania a Kiev metta a rischio la sicurezza nazionale, considerando “molto pericolosa” la decisione di autorizzare gli ucraini a colpire la Russia con armi tedesche.
In quest’ottica non è forse un caso che il governo italiano sia invece uscito rafforzato dal voto europeo. Pur sostenendo l’Ucraina, l’Italia ha negato l’impiego di proprie armi contro la Russia: una decisione che ha permesso a molti di definire Roma “isolata” rispetto ai partner NATO e UE ma che ha pagato in termini di consenso perché apparsa di buon senso. Una scelta rivendicata, con toni diversi, dai vicepremier Antonio Tajani e da Matteo Salvini che in campagna hanno ribadito in più occasioni che l’Italia non è in guerra con la Russia e che punta sul negoziato.
Del resto, il paradosso di un’Europa ormai non più in grado di sostenere con le armi Kiev ma ciò nonostante incapace in 28 mesi di guerra di imbastire una proposta negoziale accentua la convinzione che l’Ucraina avrebbe oggi tutto l’interesse a una trattativa con Mosca. Che comporterebbe certo la cessione di territori ma forse meno di quanti potrebbero pretenderne i russi tra sei mesi.
Stati Uniti e NATO (o quanto meno Stoltenberg) hanno respinto la proposta di un accordo formulata da Vladimir Putin chiedendo un anacronistico ritiro russo da tutti i territori ucraini occupati, ma è evidente che la prospettiva di una sconfitta di Kiev costituirebbe inevitabilmente anche la sconfitta delle nazioni aderenti a NATO e UE e di quanti, come USA e Gran Bretagna, nell’aprile 2022 impedirono di chiudere onorevolmente il conflitto dopo un mese e mezzo con l’accordo mediato dalla Turchia.
All’epoca lo slogan in voga negli ambienti NATO era che la guerra doveva continuare perché “avrebbe logorato la Russia”. Oggi che il conflitto ha logorato di più noi europei e hai distrutto l’Ucraina l’obiettivo è impedire il tracollo di Kiev che spazzerebbe via la residua credibilità dei leader occidentali. A partire da Joe Biden, le cui condizioni di salute emerse anche al vertice del G7 rendono sempre più imbarazzante la sua ricandidatura alla Casa Bianca. Ma senza dimenticare i diversi capi di governo europei, o Ursula von der Leyen e Mario Draghi, candidati a guidare la prossima Commissione Europea, che per due anni ci hanno raccontato come le sanzioni avrebbero messo in ginocchio l’economia e apparato militare russo, i cui soldati rubavano le schede elettroniche dagli elettrodomestici in Ucraina per utilizzarle nei sistemi d’arma, o che combattevano con pale e badili perché privi di munizioni.
Se a Gaza l’Occidente preme per la pace ad ogni costo, in Ucraina sostiene la guerra ad oltranza, con l’obiettivo di guadagnare tempo almeno, fino al voto negli Stati Uniti. Per aiutare gli ucraini a resistere è stata infatti alzata l’escalation consentendo l’impiego di armi occidentali contro il territorio russo, nella speranza che Mosca non la consideri una “linea rossa” e che finga di non sapere che l’impiego di razzi, missili e bombe guidate è possibile solo grazie alla presenza in Ucraina di consiglieri militari dei paesi aderenti alla NATO.

Analista storico-strategico

Gianandrea Gaiani