I migliori alleati del tycoon nella gara elettorale con Kamala Harris sono state le insicurezze dei cittadini. Scossi dall'effetto boomerang della globalizzazione, dall'immigrazione percepita come incontrollata e dal costo della vita. Più forti degli indicatori positivi della Bidenomics
Le elezioni presidenziali americane sono finite con una sorpresa: la vittoria nel voto popolare di Donald Trump, che si prepara a tornare alla Casa Bianca per la seconda volta. La rappresentazione nei media è di una vittoria schiacciante, ma in realtà il margine è stato sottile: quando il conteggio sarà finalizzato il vantaggio di Trump sarà meno del 2 per cento. E negli stati chiave di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, sarebbero bastati a Kamala Harris circa 250 mila voti in più per vincere tra i grandi elettori.
A livello complessivo Trump ha aumentato di poco i suoi elettori, ma Kamala Harris ne ha persi parecchi rispetto a Joe Biden 4 anni fa. Il risultato è una vittoria netta per il repubblicano, che costringe i democratici a chiedersi perché il Paese – o almeno un numero sufficiente di elettori – ha perdonato a Trump tutti i suoi difetti, a partire dal tentativo di ribaltare le elezioni del 2020.
Gli elementi strutturali di questa campagna elettorale hanno favorito Trump. Una grande maggioranza di americani crede che il Paese vada nella direzione sbagliata, e il messaggio del candidato repubblicano è stato semplice: Biden e Harris ci hanno messo in questa situazione, e io metterò a posto tutto. Di fatto ha vinto sulla domanda che inquadra le preoccupazioni economiche della società, come posta da Ronald Reagan nel 1980: state meglio oggi di quattro anni fa?
La risposta negativa degli americani è stata definita principalmente dall’inflazione, ma rafforzata da altri due importanti fattori di contesto: l’immigrazione e le due guerre che preoccupano l’Occidente, in Ucraina e in Medio Oriente. La crescita dei prezzi è il punto di partenza, in quanto ha toccato in particolare due settori fondamentali, gli alimenti e le abitazioni. Nonostante la crescita dei salari in questi anni, che a livello aggregato hanno tenuto il passo dell’inflazione, in questi settori gli aumenti sono stati decisamente maggiori, facendo percepire agli americani della classe media e bassa una perdita importante del potere d’acquisto. È stata una dinamica su cui l’amministrazione Biden ha potuto fare poco, per questioni di competenza, ma alla fine la responsabilità è sempre di chi governa.
Kamala Harris ha promesso di agire per contrastare gli aumenti in alcuni settori specifici, ma non ha costruito una narrazione chiave sull’origine dell’inflazione e le azioni del governo per combatterla. Avrebbe potuto spiegare che il commercio è stato bloccato durante la pandemia, e che l’aumento dei tassi d’interesse è responsabile dei mutui più alti. Per non parlare del ruolo dei grandi fondi come Blackstone Group nell’acquistare grandi quantità di abitazioni per poi metterle in affitto a prezzi sempre più alti. E avrebbe dovuto presentare la nuova politica industriale di Biden come un modo di garantire maggiore produzione interna, per non rimanere dipendenti dall’estero. Il suo messaggio economico, invece, è rimasto poco chiaro. Ha fatto alcune proposte dirette per aiutare i cittadini a livello fiscale, ma ha evitato di prendere posizioni nette contro i grandi interessi finanziari, anche per paura di essere considerata troppo di sinistra. Il risultato è stato un miscuglio poco convincente, che non è stato sufficiente per superare le difficoltà percepite dalle famiglie.
Inoltre, Donald Trump ha insistito sul tema dell’immigrazione. Ha promesso di deportare circa 11 milioni di persone, un piano poco realistico ma che ha ricordato agli americani la gestione fallimentare dei flussi migratori da parte dell’amministrazione uscente. In assenza di un compromesso al Congresso, Biden ha infatti aspettato l’ultimo anno della sua presidenza a prendere misure per limitare gli arrivi.
Anche le guerre all’estero hanno influito non poco. Considerando il margine di circa 30 mila voti nel Wisconsin e 80 mila voti nel Michigan, è ipotizzabile che la questione Gaza abbia fatto perdere questi stati a Harris. La candidata è stata riluttante a smarcarsi dalla posizione del presidente uscente, per paura di inimicarsi i sostenitori della destra israeliana. Si tratta di gruppi come AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) che esercitano un’influenza importante non solo nei corridoi di Washington, ma anche nell’ala centrista del partito. Harris ha pagato la riluttanza di esporsi alle critiche su questo tema, perdendo il voto dei molti cittadini di origine mediorientale in questi stati.
Infine Trump ha ammonito del pericolo di una nuova guerra mondiale, sottolineando la sua intenzione di porre fine alla guerra in Ucraina immediatamente. Sui media mainstream permane una sorta di omertà sulla questione, ma tutte le indicazioni sono che una parte importante della popolazione americana riconosca che Trump non ha iniziato nuove guerre durante il suo primo mandato; per questo motivo il messaggio a favore della diplomazia ha acquisito un certo peso.
L’effetto complessivo di inflazione, immigrazione e guerra è stato di convincere la maggioranza (o quasi) degli americani che in effetti si stava meglio prima, quando Trump era presidente. Il senso di insicurezza e incertezza di oggi ha portato questi elettori a guardare oltre le debolezze del carattere di Trump e anche il suo mancato rispetto per le istituzioni. In più, i democratici hanno sofferto un problema d’immagine molto importante: grazie a decenni di promozione delle politiche della globalizzazione, sia economiche che culturali, il partito ha perso credibilità presso la classe lavoratrice. Non è facile liberarsi degli errori passati, nonostante gli sforzi della Casa Bianca di aiutare le aree più svantaggiate del Paese.
Infine non si deve sottostimare l’impatto delle campagne pubblicitarie per definire Kamala Harris come una radicale di sinistra, leader di un partito che si preoccupa di questioni come la transizione di genere per i giovani e gli immigrati, come di altre posizioni “woke” contro la discriminazione in vari campi, che sembrano eccessive in una società dai valori moderati. La politica industriale, il sostegno per i sindacati, e le proposte concrete per aumentare il welfare non hanno potuto sfondare il muro di diffidenza creato dalle istanze culturali progressiste, viste come lontane dalle esigenze dell’americano medio.