La rielezione del premier uscente è avvenuta con numeri più risicati del previsto. La democrazia indiana, di stampo laico, ha bocciato il disegno di uno Stato all-Hindu. E la corsa dell'India torna a basarsi su crescita, sviluppo e occupazione
L’apertura delle urne in India, a conclusione di un estenuante iter elettorale, ha restituito un risultato cattivo per il premier uscente Nerendra Modi; ottimo per gli indiani, che hanno dimostrato il proprio attaccamento alla democrazia; eccellente in prospettiva per il mondo, soprattutto per quei paesi che dovranno ancora votare in questo lunghissimo anno elettorale: la democrazia ovunque attecchisce è difficile da sradicare.
Hanno votato in 640 milioni gli indiani, il 66 per cento degli aventi diritto: hindu, musulmani, cristiani, caste alte, caste basse e dalit, i senza casta, a conclusione di una campagna elettorale divisiva, che è arrivata fin nel più sperduto del mezzo milione di villaggi di cui è disseminato il sub-continente. Lunghe file di gente in paziente attesa, sotto una tremenda ondata di calore. Un risultato che fa impallidire, ed anche un po’ vergognare, gli elettori europei che hanno appena rinnovato il Parlamento Europeo con percentuali misere: una vera recessione dell’esercizio democratico.
Com’è andata? Modi, leader indiscusso del partito BJP, che non solo è la più grande formazione politica indiana, ma del mondo, con i suoi 180 milioni di membri, ottiene un terzo mandato, come solo Jawahrial Nehru, il padre della Patria, prima di lui. Ma questa, per Modi, è stata l’unica buona notizia. Difatti, lungi dal raggiungere i 400 seggi nel nuovo Parlamento, la Lok Sabha – come veniva preannunciato da tutto il variopinto universo dei sondaggisti – ne ottiene 292, sufficienti appena per una risicata maggioranza, molto lontano da quella assoluta. L’eterogenea coalizione delle forze di opposizione, dal nome impronunciabile, ma il cui acronimo, I.N.D.I.A., ha fatto colpo sugli elettori, ne conquista 232. Guidata dal risorto partito del Congresso, con a capo Rahul Gandhi, la sesta generazione di un partito dinastico, ha vinto una battaglia importante. Non fosse riuscita a darsi un profilo unitario sarebbe stata trascinata nell’irrilevanza. E’ tutto da dimostrare, però, che dal “contro” sia in grado di passare al “per”. La strada che le si para di fronte è lunga ed accidentata.
Più che una vittoria di I.N.D.I.A. è stata una sconfitta del BJP e del “Modi Raj”, l’idea di rifondare l’india su basi nazional-religiose. Non amiamo le iperboli, ma è difficile non considerarla una Caporetto per il Primo Ministro. Modi ed il suo partito hanno perduto terreno ovunque, a cominciare dalle sue costituencies naturali, gli Stati della cosiddetta Hindi Belt, quelli del Nord, meno sviluppati, quali l’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso, 240 milioni di abitanti. A Varanasi, ove si presentava Modi, la sua scheda è passata dai 500.000 voti delle precedenti elezioni a 150.000. Non è tutto: 20 ministri del gabinetto di governo hanno perduto il proprio seggio e Il BJP ha perso perfino ad Ayodya, ove il Primo Ministro, nello scorso febbraio, aveva inaugurato il tempio al dio Ram, dopo che una preesistente moschea era stata rasa la suolo. In quel distretto, il seggio è andato ad un dalit.
Tradizionalmente, la politica indiana oscilla tra due grandi temi che ne definiscono il profilo: l’identitarismo religioso e le caste. Modi ha scelto di puntare sul primo, in un paese dalle mille sfaccettature, innumerevoli etnie e religioni, ed ha perduto. Il grande disegno – così lo aveva chiamato – era quello di fare dell’India una Nazione all-Hindu, come Mohammad Jinnah aveva fatto con il Pakistan nel 1947, fondandolo sull’islamismo.
Indire un referendum su sé stesso – “trust the Modi guarantee” – impostare la campagna elettorale sulla polarizzazione, la propaganda anti-musulmana, sul culto della propria personalità – one nation, one leader – non ha pagato. Il figlio di un venditore di tè, della modesta casta degli spremitori di olio, si è sentito investito della missione di restituire all’India la propria grandezza, scippata, ripeteva nei comizi, dalla dominazione Mogul, dal colonialismo, dal federalismo. Non un uomo biologico, si era vantato di essere, ma un inviato da dio e suo sommo sacerdote.
Nei due precedenti mandati, Modi aveva progressivamente minato le fondamenta di un Paese-continente, in cui il vocabolo kal significa sia ieri che domani, che ricorda il romanzo 1984 di Orwell, “chi controlla il passato controlla il futuro”. In sostanza, Modi stava ripetendo gli errori di Indira Gandhi che, nel 1975, sospese la Costituzione per 21 mesi e nel 1977 non solo perse le elezioni ma anche il proprio seggio, e nell’84 fu assassinata. Minando le fondamenta dell’India laica, il governo del Paese si avviava verso una forma di democrazia illiberale, non rispettante la divisione dei poteri, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa.
La concentrazione del potere aveva servito egregiamente Modi per fare da pista di lancio per l’elefante indiano, issatosi nei piani alti dell’economia mondiale. Ma non aveva domato l’inflazione, non creato posti di lavoro al ritmo necessario per una popolazione dall’età media di 27-28 anni, non ridotto la forbice delle diseguaglianze. Nell’idea di Modi, queste elezioni avrebbero dovuto marcare il passaggio alla fase due, quella della centralizzazione in chiave antifederalista, portando sotto il controllo del BJP i riottosi e più sviluppati Stati del sud, tra i quali il Talangana, il Tamil Nadu, il Karnataka, dove fioriscono le Silicon Valley indiane. Insomma, forgiare una identità nazionale basata sul suprematismo hindu e, su questa base, cambiare la Costituzione. Alla quale, invece, gli indiani hanno dimostrato di voler rimanere fedeli: anche per l’India si è dimostrato veritiero il vecchio detto che “la religione conta meno di ciò che metti nel piatto”. E nel piatto gli indiani vogliono trovare welfare, perché di identità ne hanno fin troppa, ed è multicolore come gli eleganti sari, gli abiti tradizionali delle donne. E di questa identità colorata fanno parte integrale sia i 250 milioni di intoccabili, quelli che un tempo si chiamavano paria, che temevano di perdere l’accesso alle quote privilegiate negli impieghi pubblici, sia i 200 milioni di discriminati musulmani.
Ed ora? Modi ha giurato il 9 giugno, iniziando il proprio terzo mandato, ma il soul searching durerà mesi, con i forti partiti regionali che alzeranno il prezzo per assicurare l’indispensabile collaborazione al BJP. Per la governabilità sarà vitale il sostegno del Chief Minister dell’Andra Pradesh, Naidu, e quello del Bihar, Kumar: una trentina di seggi in due, ma con una ben conosciuta storia di giri di valzer nei lustri passati…
Saprà Modi superare i propri limiti di polarizzatore, per aprire agli indispensabili compromessi che dovranno tenere in piedi il suo governo di coalizione? Non è sicuro, non è un uomo per tutte le stagioni. Modi, prima come Chief Minister del Gujarat dal 2001 e poi Primo Ministro dal 2014, non si era mai trovato in una situazione simile, anche se è prematuro parlare di fine di un ciclo. E’ anche presto anche per individuare eventuali successori, nessuno dei quali ha la statura del delfino designato. Tra i più quotati emerge l’autoritario Ministro dell’Interno, Amit Shah, stratega del BJP e vicino all’RSS, movimento ideologico più che politico, che funge da ancoraggio per il partito di Modi. Accanto a lui il Ministro degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar, artefice di una politica estera indipendente, che fa scelte solo per interessi nazionali e per questo è corteggiato sia dall’Occidente che dalla Russia. Si apre, dunque, per l’India una fase di instabilità politica che, però, getterà anche le basi per una grammatica politica più equilibrata ed uno sviluppo economico più inclusivo.
E l’economia? E’ relativo il valore dello scivolone dello Stock Exchange di Mumbai all’indomani dello scrutinio, difatti in 24 ore il listino ha recuperato il proprio valore, anche tenendo presente la previsione di Goldman Sachs: entro il 2075 l’India avrà la seconda economia del mondo, con 53 triliardi di dollari (oggi è quinta, con quattro triliardi), senza dimenticare che da qui ad un decennio la middle class indiana conterà 400 milioni di individui. Cambieranno le linee guida e vi sarà maggiore attenzione alla trimurti: disoccupazione, inflazione, diseguaglianze. Inoltre, il fatto che ora Modi debba negoziare con i partner della coalizione e l’opposizione, rinvigorita, svolgerà il ruolo di watchdog in Parlamento, impedirà l’adozione di misure unilaterali ed invece potrebbe favorire le indispensabili riforme agraria e del mercato del lavoro. Piuttosto, Modi si trova di fronte ad un dilemma: se espande il welfare diminuirà la disponibilità per gli aggressivi programmi infrastrutturali (porti, aeroporti, autostrade) che sono il magnete che attira gli investimenti internazionali i quali, a loro volta, alimentano il boom economico. Short term vs long term: se coloro che dipendono dal welfare non hanno i benefici dello sviluppo allora c’è stagnazione, in un paese in cui un miliardo di persone è in età lavorativa ma solo 430 milioni fanno lavori regolari – il 50 per cento dei laureati è disoccupato – mentre gli altri galleggiano in quella che pudicamente viene definita economia informale.
In politica estera vi sarà sostanziale continuità: storia e geografia rimarranno determinanti. Lo si è visto già dalla prima visita all’estero compiuta da Modi dopo la sua rielezione, quella a Mosca, con il caloroso abbraccio riservatogli al Cremlino da Vladimir Putin. L’obiettivo perseguito da Modi è quello di ogni classe dirigente indiana: tenersi tutte le porte aperte. Con Mosca – che vende a Delhi gran parte del petrolio che l’Europa non acquista più – Modi mette in chiaro che la Cina non è l’unico interlocutore di Putin e si ripropone come leader di un Global South sempre più in grado di sparigliare le dinamiche mondiali, quello stesso di cui Mosca punta a divenire interlocutore sempre più qualificato ed attivo. Putin rompe l’isolamento internazionale e Modi impedisce che Mosca si appiattisca ancora di più su Pechino: un win-win per i due. Inutile che l’Occidente si faccia illusioni: l’equilibrismo e la ricerca spasmodica dell’interesse nazionale sono insiti nel DNA della politica estera indiana. Ancora una volta: l’India, con l’Occidente, condivide interessi, non valori.
L’India merita fiducia. Abbiamo già ricordato in un precedente articolo il vecchio aforisma dell’autore Garcharan Das: “India grows at night”. Sarà così anche stavolta. In questo gli indiani assomigliano agli italiani: se li lasci fare danno il meglio di loro stessi. Molti osservatori lodano gli uomini forti dei Paesi in via di sviluppo, perché sono decisionisti. Ma l’uomo della strada, in India, sembra istintivamente comprendere che nel lungo periodo pluralismo, solidarietà e diversità sono preferibili ed hanno dimostrato di voler rimanere quella democrazia che hanno conosciuto dal 1947: non hanno bisogno di un regime autocratico come quello cinese. In India, crescita e libertà si alimentano a vicenda, non sono alternative.