Il paese più popoloso del mondo sta crescendo in maniera veemente in tutti i campi. Il suo sviluppo è diverso rispetto a quello delle "tigri asiatiche". E anche i suoi obiettivi. Non solo economia ma anche ruolo politico e peso militare. All'insegna di un nazionalismo che punta sull'induismo per affermare la sua forza.
Si fa presto a dire India, anzi Bharat, secondo la dizione sanscrita che il Primo Ministro Modi ha riproposto. Ne esistono tante, accatastate l’una accanto all’altra, ciascuna racchiusa in una differente epoca storica. Vivono nello stesso luogo ma non nello stesso tempo: tutte sono vere. L’India delude sia i facili entusiasmi che le generalizzazioni. Inutile cercare di trovare quella vera, cucirle addosso i sistemi di valore occidentali, tentare di interpretare il suo lento fluire con la scansione dei nostri tempi brevi: 22 lingue, 22.000 dialetti, sei religioni maggiori, mezzo milione di villaggi, 800 milioni di semi-poveri che ricevono cinque chili di riso gratis al mese, 350 di classe media (più che in Europa), elezioni scaglionate lungo l’arco di sei settimane – quest’anno dal 16 aprile al 1 giugno -, con 2.400 partiti in lizza tra i quali è chiamato a scegliere un miliardo di elettori che voteranno in un milione di seggi…
Incredible!ndia: non è solo il fortunato slogan dell’Ufficio del turismo indiano, ma il commento di ogni straniero che ha messo piede in India, sopraffatto dai suoi colori, odori, sapori, dal suo entusiasmo, dalla Jugaad, l’antica arte di arrangiarsi… Pierpaolo Pasolini, nel 1960, pubblicò l’odore dell’India, il diario di un viaggio che aveva effettuato in India con Morante e Moravia. Descrisse un paese che riteneva sarebbe rimasto immutato – povero e sporco – per le generazioni a venire, rassegnato, abitato da gente mite, un dolce inferno senza futuro in vista. Invece, in meno di due generazioni l’India ha cambiato pelle innumerevoli volte: vi sono ancora 400 milioni di poveri (due volte gli abitanti della Nigeria) ma la sua diaspora anima la prima comunità di investitori-imprenditori nella Silicon Valley; i dalit – i senza casta – continuano a rovistare tra i rifiuti degli slums di Calcutta e Mumbai, ma Rihanna, Mark Zuckerberg, Bill Gates e Ivanka Trump, accanto a centinaia di global Indians, i bollygarchi, hanno partecipato alla cerimonia di pre-matrimonio di Anant, il figlio dell’ipermiliardario Mukesh Ambani; ai piedi dei grattacieli delle compagnie Hi-tech di Bangalore ed Hyderabad si continua ad arare con i bufali, ma gli Institute of Technology indiani hanno ormai poco da invidiare all’MIT di Boston ed al CalTech di Pasadena.
In india il futuro si concima con il passato ed il più povero dei lustrascarpe conserva negli occhi, senza rendersene conto, un barlume di luce che gli deriva dall’essere l’ultimo anello di una catena iniziata con i Veda mille anni prima che Omero scrivesse l’Odissea, e che non si è mai interrotta… In India il destino si accetta, non c’è l’ansia occidentale di immaginare il futuro, di dominarlo e piegarlo, non la determinazione ad imporre al mondo un ordine, una scala di valori, una logica, una moralità passpartout. Mentre l’Occidente si è occupato con grande successo del mondo attorno all’Io ed è diventato materialista, l’Oriente, ed in primis l’India, hanno scavato dentro quell’Io, e ne hanno esaltato la spiritualità. Alle nostre latitudini, sempre più inquiete ed insoddisfatte, ove le ideologie e le religioni hanno esaurito la loro carica vitale e si sono trasformate in stanche liturgie, la gente non si interroga più sulla dimensione della vita e della morte, ma di come mantenersi giovani. Da qui nascono la febbre del consumismo, le pericolose rivolte contro la ragione ed il rifugio nell’irrazionalità. Al contrario l’India, caotica, disordinata, deposito di valori e magnete di idee, che concilia tradizione e innovazione, conta sul fatto che la sua saggezza la farà sempre rimanere eguale a sé stessa. L’India non ha bisogno del mondo perché contiene in sé stessa il mondo, come sostengono gli esponenti della sua intellighenzia, senza arroganza, perché lo danno per scontato.
L’India è un continente sterminato, la si ama o la odia a prima vista. Alieno? Si, non può che essere tale un mondo in cui la concezione del tempo scorre in modo circolare quando la nostra è lineare, dedito all’introspezione quanto il nostro lo è all’esternazione, con milioni di divinità, la dottrina delle rinascite e reincarnazioni, dove non vi è un credo perché manca un fondatore, una galassia di spiritualità non retta da gerarchie ecclesiastiche centrali, ove la vita è concepita come una successione ininterrotta di momenti sacri, il tutto fondato su un ordine cosmico che pervade e sostiene l’intera realtà, divina ed umana: l’essenza dell’esistente viene individuata in un ineffabile principio universale chiamato brahman cui corrisponde, nell’uomo, l’atman. Uomo che è incatenato alle proprie azioni dal karman nel ciclo delle esistenze, il samsara, da cui solo la conoscenza suprema permette la liberazione. Questo il rompicapo che offre l’India ai suoi visitatori, un rompicapo che non è possibile risolvere né comprendere, ma solo osservare e rispettare.
Il primo e più grave dei molti errori che l’Occidente commette guardando all’India è di carattere culturale, nel senso più ampio. La profondità di tali differenti sensibilità rispetto ai nostri standard è mal compresa ed in genere sottovalutata. Dell’India si ha una conoscenza invecchiata e superficiale immersi, come eravamo ed ancora largamente siamo, in una visione stereotipata e sempre meno aderente alla realtà fattuale di quella che intanto è divenuta una delle prime cinque econome del mondo, potenza nucleare che aspira ad un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che dal giorno dell’indipendenza ha condotto 27 guerre e che, a torto o a ragione, ritiene di poter dialogare sul piede di parità con Stati Uniti e Cina, oltre a porsi come modello di attrazione verso la composita galassia del Global South.
Si consideri, ad esempio, il concetto di modernità, che porta con sé la misura di quello che noi consideriamo il suo opposto, l’arretratezza. In India non vi sono state rotture traumatiche come per l’Occidente fu la fine della civiltà greco-romana e la rinascita della società e della cultura sui fondamenti spirituali giudaico-cristiani, niente di paragonabile alla rivoluzione illuministica e quella francese o americana. L’India non divide, come l’Occidente, le epoche storiche, che vi si succedono ineluttabili le une alle altre, senza soluzione di continuità. In India il tempo resta ancorato ad una concezione ciclica. Non vi sono fratture; non vi sono state, a differenza della Cina, una Lunga Marcia, una Rivoluzione Culturale, una trasformazione come quella di Deng Xiaoping, una repressione come quella di Tienanmen. Tutto viene metabolizzato, assorbito. In India non esiste la storia per come la intendiamo dalle nostre parti, fatta di eventi e di volti, ma solo una galleria ininterrotta di miti. Il presente si costruisce con i mattoni del passato e serve da fondamenta per il futuro. In India la modernità non potrebbe mai essere decretata come lo è stata in Cina. L’India eterna – affermano i bramini indiani – c’era da prima di tutti gli altri ed ha prodotto tutto quello che conta, dalla trascendenza ai presupposti spirituali della fisica quantistica. L’Occidente, si sostiene, deve invece ancora fare i conti con le ferite infertegli da Copernico, Darwin, Freud, dalla Rivoluzione industriale. L’India, nella loro visione, non avrebbe bisogno di alcun revisionismo culturale: tutto era scritto e previsto dai Vedanta, oltre 40 secoli orsono.
Sono, forse, meno moderni dei nostri quegli scienziati indiani che effettuano la puja, la preghiera rituale, prima di lanciare in orbita i satelliti? Oppure è arretrato il Primo Ministro Modi che sceglie come giorno ed ora del giuramento suo e del Governo quelli dettatigli dal suo astrologo personale? Del resto, se l’India vive una sorta di eterno presente storico, la nozione stessa di modernità perde efficacia. Un “appuntamento con il destino” (a Tryst with Destiny) era stato preannunciato dal Primo Ministro Nehru quando ammainò la Union Jack davanti all’ultimo Viceré britannico, Lord Mountbatten; ricompensa per una plurimillenaria e fideistica “predisposizione alla grandezza”. In questo, nei suoi anni, Nehru era stato non meno moderno di quanto lo sia Modi oggi. In realtà l’animo indiano è inconoscibile per definizione, come il cosiddetto soffio vitale cantato negli inni vedici. Un Paese, dunque, per il quale le definizioni non sono utili e che scoraggia il cartesiano riduzionismo occidentale. Tornano alla mente le Memorie di Guerra del Generale De Gaulle: “Vers l’Orient compliqué je volais avec des idées simples”. L’India, a differenza della Cina, non ha fretta.
La priorità del salvare la faccia è una nozione comune a tutta l’Asia, ma viene spinta al parossismo in India. Tutto è negoziabile, tranne la reputazione. Resta oltremodo delicato in India il rapporto con l’eredità coloniale: l’acquisto di Jaguar, Land Rover, così come i 470 Airbus del gruppo Tata per la nuova Air India, di Royal Enfield, di Arcelor, ha fornito carburante per corroborare l’orgoglio di una Nazione consapevole di essere stata, all’atto dell’arrivo della Compagnia delle Indie nel Paese, assai più ricca della potenza colonizzatrice. L’India è uno Stato giovane, con un forte senso di identità nazionale, vissuto con una intransigenza radicata nei propri trascorsi. Se ne deve tenere conto nell’approccio alla sua classe dirigente.
Va preso atto che, pur con spunti di insicurezza, è altissima la coscienza di sé degli indiani: l’India ha liquidato l’impero inglese; è l’unica realtà in grado di rivaleggiare con l’influenza culturale globale degli Stati Uniti; una sua sonda ha raggiunto Marte al primo tentativo (il che non è riuscito a cinesi e giapponesi) ed un’altra ha toccato il Polo Sud lunare, impresa mai finora riuscita ad altri (fornendo l’occasione a Modi di dichiarare che “il cielo non ha limiti”); è nella Shangai Cooperation Organization con la Cina e nel Quad con gli Stati Uniti; non tentenna nel porre il veto al WTO; è divenuta la nazione più popolosa del mondo nel 2023; si è posta l’obiettivo di superare il PIL cinese entro il 2050; sono indiani nati in India o figli di indiani coloro che guidano alcuni dei principali colossi della finanza e della tecnologia in America, il cosiddetto Indian Power, da Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet-Google a Satya Nadella di Microsoft, da Arvind Krishna di IBM a Lena Nadel che guida Chanel, e dozzine di altri; sono indiani alcuni tra i gruppi imprenditoriali più grandi al mondo, da Reliance Industries – di proprietà del citato Ambani, l’uomo più ricco dell’Asia – a Bharti Airtel a Infosys. Da qui nasce un’arroganza diffusa. L’India è povera? Oggi, ma non ieri e non domani. È ancora un alfiere del sottosviluppo? Ma vi erano 500 regni all’epoca dell’arrivo della Compagnia delle Indie e Delhi presto sarà sviluppata come la Cina, anche se il suo PIL oggi vale un-quinto di quello di Pechino: questo il ragionamento. L’Europa viene vista come un continente invecchiato, in regresso demografico e finanziario, con un welfare che non si può più permettere, incerto sul proprio ruolo nel mondo.
Non è vero che gli indiani siano privi di logica. Ne hanno una che – come la concezione del tempo – non è la stessa che usiamo in Occidente. L’India è la patria di uno stuolo di pensatori ed asceti che sostengono che la realtà non è quella che appare, dato che essa si situa a livelli non percepibili da sensi non allenati come sono quelli occidentali. Il libero arbitrio, nella nostra cultura, è un atto razionale per eccellenza; per gli indiani, invece è subordinato alla concezione karmica della vita. Il nostro centro di razionalità si situa nella mente, per loro nel cuore. Gli indiani non intendono pregiudicarsi nessuna possibilità: mentre la nostra è la terra dell’“o” (questo o quello), l’India è la terra dell’“e” (questo e quello).
Un Paese come l’India, che, come pochi attori della realtà internazionale, viene da lontano, può maturare un effettivo mandato per il cambiamento? L’India dell’inizio del XXI secolo è in una fase di accelerazione esponenziale, vive le sue colossali contraddizioni in chiave di crescita anziché, come per il passato, di subordinazione e ritardo. Questo mandato, posto oggi nelle mani di Modi – un game changer – ha un solo precedente nella storia dell’India unita: di nuovo il riferimento è Nehru, uomo che non potrebbe essere stato più diverso dal Modi odierno, tanto questi si vanta delle proprie umili origini, parla male l’inglese, ha un’agenda populista, quanto l’altro era elitista, colto, laico, impregnato di valori occidentali, fervente sostenitore della pianificazione dirigista, eppure rispettoso della tradizione e delle peculiarità indiane. Come Nehru, Modi – il pio hindu, come ama definirsi, il Vishvagaru, la guida del mondo, come lo chiamano i suoi sostenitori – intende rimettere l’India al posto che le compete. Ha posto mano ad una decisa correzione di rotta politico-economica con il suo programma Make in India – ne riparleremo – assicurando una guida forte, ancora tributaria di mediazioni con gli interessi corporativi, tuttavia attenta all’indispensabile modernizzazione infrastrutturale del Paese, per la quale occorrono giganteschi flussi di investimenti internazionali. Un rullo compressore il suo, pragmatico, fortemente conservatore, distante mille miglia dall’ormai esangue Indian National Congress della dinastia Gandhi. Egli mira a collocare New Delhi nella cabina di regia dei fori mondiali in cui vengono prese le decisioni che contano: nel 2022 ha ospitato la presidenza del G-20 ed organizzato il The Voice of the Global South Summit, con oltre cento paesi inviati, ma non la Cina. Il suo obiettivo è quello di una Pax Indica da contrapporre in un futuro non si sa quanto lontano alla Pax Sinica: da qui il difficile equilibrio del multi-allineamento di New Delhi tra Washington e Mosca, con il porsi come alfiere del mondo in via di sviluppo, con gli altolà alle COPS, le conferenze sul clima, nella convinzione che nessuno potrà o vorrà porsi di traverso ad una potenza che intende divenire superpotenza. Una larga parte dell’investimento politico di Modi si giocherà sulla sua capacità di tenere assieme nazionalismo e fede finalizzati alla modernizzazione economica e sociale: un progetto ambizioso che corre sul filo del rasoio, perché l’India delle istituzioni è sempre stata secolare, con il suo caleidoscopio etnico e le mille affiliazioni religiose. E difatti egli afferma che la sola religione nel suo Paese è l’India first, un combinato di unicità indiana e identità induista, però intanto inaugura il tempio al dio Ram, ad Ayodhya, e predica ed attua il suprematismo hindu. Involuzione della democrazia alle viste…
Questi sono alcuni tra gli elementi centrali per capire l’India ed il nostro rapporto con la sua classe dirigente. l’India è – nella nota espressione di Indira Gandhi – tutto e il contrario di tutto. È il particolare e l’universale che coesistono; la patria del bufalo e di Infosys; dell’oggettivo e del soggettivo; dei fatti e dei miti; del finito e dell’infinito; del lineare e del circolare; dell’analitico e dell’intuitivo; della mente e del cuore. In sintesi: l’India è la terra dei paradossi e della complessità. L’India, soprattutto, come la Cina è il luogo dove la Storia non è finita ma, come un pendolo, sta tornando indietro…
Non con l’India accogliente e tollerante di un immaginario collettivo, tanto radicato quanto obsoleto, ma con questa India, faticosa, che associa complessi di superiorità e profonde insicurezze, con il suo eccezionalismo e quello che percepisce come un destino manifesto, con cui il mondo, prima di quanto avesse sospettato, sta cominciando a fare i conti.