L'elezione di un presidente laico ha suscitato entusiasmo in una vasta area della società persiana. E nelle capitali occidentali si guarda a Pezeshkian con malcelato interesse. Ma non è detto che il neo-eletto sarà in grado di contrastare gli orientamenti del potere reale, sempre in mano agli ayatollah
La vittoria alle elezioni iraniane del moderato Massoud Pezeshkian, medico chirurgo e Ministro della Sanità nel governo riformista Khatami, è stata salutata con note di speranza dalla maggior parte dei media occidentali, maestri nelle due attitudini da essi predilette: asservimento e analisi di superficie. Ad attenuazione di quanto precede, va detto che un’involontaria applicazione del principio di eterogenesi dei fini potrebbe persino giustificare tale speranza, tenendo sempre conto che la narrativa dominante è figlia diretta della macchina della propaganda. Secondo l’ermeneutica prevalente, la vittoria di Pezeshkian – inattesa per esperti/osservatori occidentali, i quali, tranne qualche eremita semi-desaparecido, rimbalzano all’unisono la voce del padrone – potrebbe aprire qualche spiraglio sul futuro di quel paese. Votando per un moderato, secondo tale esegesi, il popolo iraniano avrebbe espresso la volontà di un accomodamento con le istanze del Grande Satana (così il regime iraniano chiama gli Stati Uniti), che in Medioriente, contro i suoi stessi interessi, si piega agli interessi sionisti, le cui potenti lobby controllano media, senatori/congressmen e candidati alla Casa Bianca (1). Alla luce di tale ipotetico appeasement tra Iran e Usa, il popolo iraniano vedrebbe migliorare le sue condizioni di vita, godrebbe di minor repressione e maggior rispetto dei diritti dell’uomo e della donna. L’Iran è tuttavia abituato a smentire stereotipi di prassi ed esegesi.
Vediamo. Secondo i dati diffusi dal governo, la partecipazione al voto è stata inferiore al 50%. Pur nell’ipotesi – su cui sarebbe meglio non scommettere – che tale dato risponda al vero, resta il fatto che la maggioranza della popolazione non ha partecipato alle elezioni, ritenendole un trucco di regime. La dirigenza iraniana ha la consuetudine di scegliere i dirigenti, presidente compreso, sulla scorta di valutazioni che prescindono dalla volontà popolare. Secondo molti, anche la vittoria di Pezeshkian deve dunque leggersi come una selezione e non un’elezione. E le tecniche che il regime ha a disposizione sono molteplici: esclusione di concorrenti scomodi, propaganda asfissiante, distribuzione di benefici e promesse, e se ciò non basta, falsificazioni. Se si esclude una percentuale situabile intorno al 20%, che da tale impalcatura trae benefici materiali e di potere, gran parte della popolazione – vaccinata da tempo contro le citate ritualità (sono ancora aperte le ferite sofferte a cavallo del secolo dalle disillusioni della presidenza Khatami, depotenziato o minacciato, in ogni caso incapace a mantenere le promesse) – è concentrata su alcune priorità: lavoro, potere d’acquisto, servizi sociali, un po’ di agibilità politica, moderazione repressiva.
In Iran, la piramide del potere vede in cima la Guida Suprema (l’anziano Ali Khamenei), espressione del clero sciita politicizzato, affiancato dal braccio secolare, i Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran). I presidenti di turno sono sorvegliati dall’alto, assegnatari di prerogative limitate, come del resto il Parlamento (Majles), i cui provvedimenti/leggi devono ottenere il via libera del Consiglio dei Guardiani (nominato dalla Guida Suprema), prima di essere promulgati. In tale contesto, la scelta del regime a favore di un candidato moderato, al posto di un falco come Jalili (il concorrente sconfitto), deve inquadrarsi in una strategia preventiva di ipotetiche e non improbabili agitazioni popolari destabilizzanti, che per di più, secondo i convincimenti iraniani e non solo, godono del sostegno finanziario e materiale dei servizi americani/israeliani. Nell’insieme, il popolo iraniano non esprime eccessivo ottimismo sull’immediato futuro, riservandosi di giudicare dai fatti, vale a dire gli spazi concreti (miglioramento delle condizioni di vita e attenuazione dei rischi di conflitto), che i vertici clerico-militari consentiranno al nuovo presidente.
Se in politica interna, eufemisticamente, il regime dispone di spazi di miglioramento, la musica è diversa in politica estera, a sua volta, come ovunque, intrecciata alla prima. Non dovrebbe sorprendere se, in ragione delle continue minacce e aggressioni cui il paese è sottoposto, il regime reagisca accentuando la repressione e irrigidendo le posizioni, anzi è forse proprio questo l’esito voluto.
In politica estera, invece, il paese difende il suo diritto alla sicurezza, e non intende piegarsi alle intimidazioni del Piccolo Satana (Israele), che con l’incondizionato sostegno americano mira alla sua destabilizzazione finanziando agitazioni, attentati, commettendo omicidi di scienziati (in Iran) e consiglieri militari (Siria, Libano), fino all’ultima provocazione (1° aprile scorso), il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco, che avrebbe dovuto provocare l’intervento americano in risposta a quello iraniano (che è stato invece contenuto e concordato con gli Usa) in un conflitto allargato, che a sua volta ha favorito lo sterminio definitivo del popolo di Gaza. Sulla carta, le priorità dello Stato Ebraico non hanno a che vedere con l’Iran, essendo esse concentrate sulla distruzione del popolo palestinese. Tale disegno implica tuttavia la rappresentazione della Repubblica Islamica quale minaccia esiziale per Israele, sebbene la realtà sia capovolta, essendo Israele/Usa a minacciare l’Iran, e non il contrario. Tale immagine aiuta altresì a oscurare le annose violazioni di diritti umani da parte di Israele in Palestina (ben prima del 7 ottobre 2023) e degli Stati Uniti (colpi di stato, omicidi mirati – come quello clamoroso del gen. iraniano Q. Soleimani, da parte del reo confesso Donald Trump, nel gennaio 2020 – prigioni segrete, torture sistematiche ai danni di chiunque intralci gli interessi dell’Impero, e via destabilizzando: turpitudini su cui le evidenze sono oggi plateali).
Quanto agli Stati Uniti, essi sono in bilico su due piatti di una bilancia: a) da una parte, la costruzione dell’Iran quale minaccia esistenziale per Israele favorisce la teoria del caos, destrutturazione di chiunque infastidisca lo Stato Ebraico difendendo i diritti dei palestinesi, guerre senza fine in Medioriente (MO) che rafforzano dollaro e petrolio, a beneficio delle corporazioni di Wall Street; b) scarso interesse a un allargamento del conflitto in MO che, specie in un anno elettorale, danneggerebbe l’economia, con inflazione e prezzi del petrolio alle stelle, calo dei valori di borsa e via dicendo. La scelta è contingente e non v’è spazio, qui, per elaborare oltre. Ora, l’elezione del nuovo presidente iraniano inciderà poco su tutto ciò. Teheran continuerà sul cammino verso Oriente, dopo le delusioni sofferte da un’Occidente – Europa compresa, ridotta ormai a maggiordomo di servizio dell’alleato padrone – prono alle dissennate politiche estrattive dell’oligarchia bellicista americana. L’adesione di Teheran ai BRICS e alla SCO (2), insieme alle crescenti prospettive di saldatura politica ed economica con Russia e Cina, anche militare con la prima, resta una scelta consolidata, di pertinenza dei livelli alti del potere. In sintesi, se il moderato Pezeshkian giustifica un parziale ottimismo in politica interna (allentamento repressivo su dissenso e costumi, graduale superamento dell’interpretazione vetero – conservatrice della legge coranica, politiche sociali), nella misura consentita dal clero sciita e dai Guardiani, in politica estera le dinamiche sono di natura strutturale.
Sul teatro regionale il paese deve guardarsi da un coinvolgimento diretto nel conflitto israeliano-palestinese, che provocherebbe l’intervento americano e un’imprevedibile escalation che metterebbe a repentaglio la sopravvivenza stessa del regime.
In assenza di statisti avveduti – merce rara tra i vertici atlantici (e del tutto assente nella vassalla Europa) – che possano indurre l’impero egemone a distanziarsi dal fondamentalismo sionista, in una regione per di più dove sono presenti contingenti militari russi (che in Siria come noto garantiscono la vita al regime di al-Assad) – le tensioni tra i paesi del MO e le Grandi Potenze sono destinate ad aggravarsi.
Non solo la storia insegna che il volante può sfuggire di mano, ma il probabile ritorno di D. Trump alla Casa Bianca ne aggrava le prospettive, alla luce delle sue note posizioni oltranziste su MO e Israele.
L’avvento di Pezeshkian sarà ininfluente anche sul terzo punto qui rilevato, la questione nucleare. Come noto, in MO il solo paese a possedere l’arma atomica è Israele, non l’Iran, il quale è firmatario del Trattato di Non-Proliferazione, che implica l’accettazione dei controlli degli ispettori dell’Aiea (3), oltre che delle due cruciali convenzioni internazionali su armi chimiche e armi biologiche, convenzioni che Israele (insieme a pochissimi altri paesi) non ha mai ratificato. Con l’accordo firmato nel 2015, Teheran aveva accettato di sottoporsi a ulteriori verifiche su ipotetici scostamenti dal nucleare civile, consentito dal TNP, al nucleare militare, vietato.
Quell’accordo non è però mai entrato in vigore, in ragione delle trappole poste dallo stato profondo Usa, da sempre contrario a una pacificazione con l’Iran. L’allora presidente Obama aveva provato un percorso evolutivo nei rapporti con Teheran, spingendo verso l’abbandono dell’immagine di un paese ontologicamente nemico, favorendo commerci, investimenti, scambi scientifici e culturali e via dicendo, strumenti alla base della coesistenza pacifica che avrebbero persino accresciuto la capacità di condizionare il regime al rispetto di libertà e diritti umani. Tale disegno era però contrario agli interessi israeliani. È presumibile che la decisione di Trump (2018) di stracciare l’accordo nucleare sottoscritto da Obama tre anni prima sia l’esito delle manovre delle lobby israeliane, a cui J. Biden si è piegato senza fiatare, sebbene, quale vicepresidente di Obama, egli avesse condiviso spirito e finalità di quell’accordo.
Anche su tutto ciò il neoeletto presidente Pezeshkian avrà scarsa influenza.