La Cina di Xi

Un articolo di: Alberto Bradanini

In vista delle sfide interne e internazionali il leader della superpotenza asiatica rafforza la presa sul paese. Meno potere all'esecutivo e sempre di più al partito. Con un'attenzione accresciuta alla relazione strategica con Mosca.

L’annuale riunione congiunta della Assemblea Nazionale del Popolo (ANP) e della Conferenza Consultiva Politica (CPPCC), chiamata “le due sessioni”, si è conclusa a marzo, a Pechino, dopo otto giorni di lavori, improntati come di consueto all’armonia e alla concordia formali, poiché i conti si fanno sempre altrove, cioè nel Partito.

Quest’anno è stata cancellata la tradizionale conferenza-stampa del Capo del Governo, che, come affermato dal portavoce dell’ANP, Lou Qinjian, non avrà luogo nemmeno nei prossimi anni, salvo particolari circostanze. La prassi della conferenza era stata introdotta da Li Peng (1988) e fino al 2023 costituiva una rara occasione d’interlocuzione con il vertice del governo, offrendo qualche spazio di comprensione, o almeno di speculazione, sulle politiche della Cina, anche o quando le domande erano selezionate.

Nel 1998, Zhu Rongji, succeduto a Li Peng, parlando della lotta alla corruzione, affermò “di aver preparato cento bare, novantanove per i funzionari disonesti e una per lui”. Nel 2011, Wen Jiabao, dichiarò che “senza le riforme politiche, quelle economiche da sole non sarebbero bastate, con il rischio di compromettere i risultati raggiunti”. Ciò aveva alimentato sospetti o speranze, a seconda dei punti di vista: come noto, per riforme politiche la Cina intende maggior efficienza del sistema, mentre l’Occidente le concepisce come introduzione di lineamenti di democrazia formale. Nel 2020, una riflessione di Li Keqiang secondo cui almeno 600 milioni di persone vivevano ancora con 1.000 yuan al mese (140 dollari) venne letta quale critica alle politiche di Xi Jinping e dunque come una sfida alla sua leadership.

Sui temi cruciali di politica economica, nulla di nuovo. Come lo scorso anno, anche nel 2024 si prevede un Pil in crescita del 5%, (nel 2023 esso aveva poi superato il 5,2%). Smentendo le aspettative, il Premier Li Qiang 2 non ha parlato di stimoli al settore immobiliare o alla domanda interna, evocando la necessità di sostenere un’economia di qualità, correggendo la sovraccapacità di alcuni settori e aiutando le imprese (specie le medio-piccole) con l’obiettivo di creare 12 milioni di posti di lavoro. Le priorità restano l’innovazione, l’autosufficienza tecnologica, l’intelligenza artificiale, l’automazione elettrica, l’energia a idrogeno, i nuovi materiali, i farmaci innovativi e l’aviazione. Verrà però rafforzata la politica della natalità (nel 2023 la popolazione è diminuita per il secondo anno consecutivo). Come nel 2023, infine, la spesa militare aumenterà del 7,2%, rimanendo comunque tre volte inferiore rispetto agli Stati Uniti.

Nessuna novità nemmeno in politica estera. Nella sua conferenza stampa, il ministro degli esteri, Wang Yi, ha sottolineato il ruolo della Cina nel Sud Globale e contro l’unipolarismo americano, tenendo a mente che il cemento che unisce i paesi Brics-plus, Sco o riuniti in altre aggregazioni non è l’ideologia (il solo paese comunista è la Cina) o la dottrina dei blocchi contrapposti, ma la sovranità, condizione ineludibile per ogni nazione che intenda tutelare i propri interessi e prosperare.

Sulla guerra in Ucraina, Wang ha ribadito la necessità di un compromesso basato su un’architettura di sicurezza equilibrata, efficace e sostenibile, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite, in linea con la piattaforma in dodici punti che la Cina ha avanzato nel febbraio 2023 e che è stata insensatamente rifiutata dall’Occidente a guida Usa.

Quanto al Medioriente, Wang Yi ha affermato che la Palestina va accolta in seno alle Nazioni Unite quale membro a pieno titolo (al momento, dal 2012, essa è solo osservatore), che gli Stati Uniti dovrebbero cessare di opporvisi, che l’occupazione israeliana di Gaza e Cisgiordania è contraria al diritto internazionale, che la comunità internazionale non può più ignorare ciò che avviene nella Striscia, una catastrofe umanitaria e una vergogna per la civiltà. Nulla giustifica la continuazione del conflitto e l’uccisione di civili. La sola soluzione è la nascita di uno Stato palestinese.

Se in questa regione Pechino si mostra una forza di stabilità (ha favorito la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Riad e Teheran e il reintegro della Siria nella LegaAraba), essa guarda invero all’insieme del Sud del mondo, che ha bisogno di pace e prosperità.

Secondo Wang, i rapporti con gli Stati Uniti hanno registrato qualche progresso dopo l’incontro in California tra i due presidenti lo scorso novembre. Tuttavia, Washington continua a vedere la Cina come un rivale strategico, rinunciando a metabolizzare la materialità della Cina nel mondo, nell’insensata illusione che la liquidazione della Repubblica Popolare sia un obiettivo realizzabile. Il  principio di coesistenza pacifica è fondamentale per mantenere buone relazioni, mentre le conseguenze di  un conflitto sarebbero esiziali per tutti. I paesi hanno sistemi diversi, ma tutti legittimi. La Cina vuole il dialogo e l’interazione economica, mentre Washington è prigioniera di una mentalità da guerra fredda e opera attraverso circoli chiusi, quali il G7 o le alleanze in Asia (Aukus e Quad).

Quanto all’Unione Europea, Wang ha sottolineato che non esistono contrasti strategici tra le due parti, e che gli interessi comuni superano di gran lunga le differenze. Bruxelles, tuttavia, dovrebbe difendere i suoi interessi con spirito di cooperazione. A seconda delle circostanze, infatti, l’UE vede la Cina come un partner, un concorrente o un rivale sistemico, e ciò è un errore. Quando si arriva a un semaforo, non si devono accendere contemporaneamente il verde, il giallo e il rosso: questo genera confusione e incomprensione (come l’inchiesta di Bruxelles sui veicoli elettrici!).

Wang ha aggiunto che Cina e Russia, entrambi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno sviluppato un paradigma di relazioni strategiche diverso dal tempo della Guerra Fredda, fondato su non allineamento, non confronto e non aggressione contro terzi. In uno scenario dove l’ascesa dei Brics modifica la mappa del potere e riflette i bisogni del mondo emergente, i due paesi svolgono un ruolo cruciale nel rafforzare la sicurezza e la cooperazione multilaterale. Quali paesi limitrofi con enormi interessi comuni, Cina e Russia sono destinati a intendersi. Non è un caso che oggi il gas russo raggiunge milioni di case cinesi e le automobili cinesi circolano sempre più sulle strade russe.

Su Taiwan, Wang Yi chiede il rispetto del principio di una sola Cina, come fanno i 180 Paesi e organizzazioni internazionali che hanno relazioni con Pechino, e in linea con i comunicati congiunti sottoscritti da Usa e Cina negli anni ’70 quale presupposto per l’apertura delle relazioni diplomatiche. Chi sostiene l’indipendenza di Taiwan, dunque, sfida la sovranità della Cina e si pone fuori dalla storia. Anche nel Mar cinese meridionale, poi, la Cina difende i suoi diritti e auspica che le divergenze siano gestite attraverso dialogo e spirito di compromesso. Per la Cina la pace è una scelta politica e ideologica, e in ogni caso lo è dal punto di vista dei suoi interessi. In caso di conflitto, infatti, la prima vittima sarebbe il commercio, che insieme a domanda e investimenti resta indispensabile per la crescita economica, a sua volta precondizione di quella politica e militare.

L’11 marzo, infine, l’ANP ha aggiornato la divisione di competenze tra Partito e Consiglio di Stato (è questo il nome che in Cina designa il governo) che era stata definita nel lontano 1982 da Deng Xiaoping. La legge di modifica è passata con il voto di 2.883 delegati, otto contrari e nove astenuti. D’ora in avanti la gestione dei 21 ministeri e dei governi locali sarà responsabilità del Partito e non più dell’Esecutivo, il quale si limiterà a sostenere senza riserve l’autorità del Comitato Centrale del Partito e la sua leadership, attuare le decisioni politiche dei leader, in specie del Segretario Generale.

Se è indubbio che nella realtà cambia ben poco rispetto al passato, poiché il Partito è sempre stato al centro del processo decisionale, l’obiettivo della norma sembra mirare altrove, vale a dire impedire il formarsi di autonomi centri di potere, correnti di pensiero e pratiche che nel tempo potrebbero generare qualche insidiosa frattura interna. Un’altra ragione potrebbe essere legata alla decisione strategica di Xi Jinping di non limitarsi ai due mandati (come a suo tempo suggerito da Deng e che lo porterebbe a vedere nemici ovunque). A tutto ciò si aggiungono le ansie generate dalle frizioni con Stati Uniti ed Europa. Si tratta di uno scenario che incide sul premier Li Qiang, il cui ruolo politico viene ingabbiato, sebbene egli faccia parte del Comitato Permanente del Politburo, dove si concentra il potere ultimo del sistema cinese. Il Consiglio di Stato diviene ora un mero organo esecutore del Partito e Xi mostra ancora una volta di ispirarsi a Mao (secondo il quale il Partito era tutto), piuttosto che a Deng (che aveva uno sguardo laico del sistema). E questo non è un bene.

Diplomatico, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015)

Alberto Bradanini