La Difesa Europea in cerca di strategia

Nonostante i costi la difesa dell'Unione Europea resta inadeguata. Schiacciata tra le divisioni interne e la subalternità all'Alleanza a guida Usa il sogno di un efficiente esercito europeo si aggrappa a una nuova Bussola strategica

L’Unione Europea il 21 marzo 2022 si è dotata della Bussola Strategica dell’UE: sono passati 20 mesi in cui è successo di tutto nel resto del mondo, ma poco si è veramente mosso a livello europeo. Il 17 ottobre scorso c’è stata una prima esercitazione militare in Spagna con 25 aerei, sei navi, 2.800 soldati, mezzi satellitari e cibernetici con un assalto ad un porto marittimo per soccorrere dei civili intrappolati a causa di un attacco terroristico che ha destabilizzato un paese fittizio. Il 24 ottobre 2023 il Consiglio UE ha approvato un aggiornamento della strategia marittima (Revised EU Maritime Security Strategy), un documento nettamente più concreto della Bussola, cui fa un doveroso riferimento. E da Bruxelles questo è tutto, tanto più che della Bussola si è praticamente smesso di parlare.

Ovviamente la comunicazione ufficiale europea è pronta a mostrare tutta una serie di cose lodevoli  avvenute in questo periodo (finanziamenti, piani industriali, riorganizzazioni, aiuti all’Ucraina, missioni, ecc.) ma che restano scarsamente incisive per quel che succede e quello che potrà succedere. Il dividendo della pace ha smesso di essere incassato, praticamente, dal 2000 (dati SIPRI), anno in cui la spesa militare globale è ripresa. L’Europa dal 1991 non solo è stata circondata da una cintura di fuoco di conflitti dall’Atlantico africano al Caucaso, ma ha già sperimentato due grandi guerre nel suo vicinato (ex-Jugoslavia ed Ucraina). L’unipolarismo americano è durato giusto dal 1989 al 2004, quando di fatto il Blitzkrieg in Iraq è fallito insieme alla pacificazione. Gli equilibri della Guerra Fredda sono archiviati e con essi molte premesse tacite delle politiche di sicurezza globali.

Nessuno crede seriamente che la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, sia capace di aggredire un qualunque paese NATO prima di un decennio. Ma è chiaro che la guerra ha già bussato alle porte dell’Europa e che una guerra mondiale con epicentro nel Pacifico non è un’ipotesi peregrina.

Le elezioni europee del giugno 2024 non dovrebbero, salvo sorprese, creare grande pressione per cambiare: la difesa è la settima priorità degli elettori con il 25% seguita dalla lotta al crimine organizzato ed al terrorismo (20%), come rileva l’ultimo Eurobarometro. Sono percentuali non piccole, ma insufficienti se il dibattito è comprensibilmente dominato dalla povertà e dall’esclusione.

Ci sono peraltro due punti essenziali da chiarire in un dibattito confuso e velleitario sull’autonomia strategica della difesa e sicurezza europea: il quadro strategico di riferimento e le capacità. Il quadro strategico è giusto un punto di riferimento concordato politicamente, ma i decisori politici devono tirare le conseguenze e superare ora l’attuale Bussola Strategica, il cui aggiornamento è invece previsto nel 2025. Le capacità sono la concreta espressione della volontà politica a 27. L’autonomia strategica è come la maggiore età, senza uno stipendio proprio, ha un peso molto relativo.

La Bussola Strategica ha il grande pregio di essere la prima volta che i 27 concordano su un tema così difficile, ma, tra i diversi limiti, ne spiccano due: non ha tenuto in conto le conseguenze della guerra in Ucraina ed una valutazione della minaccia basata su ovvietà consensuali.

Il portato della guerra ancora in corso è semplice in quanto i paesi europei, alleati o meno della NATO, devono cominciare a dotarsi di una deterrenza convenzionale assai più credibile che in passato. Sulla carta i paesi UE spendono 2,9 volte più che la Russia nel settore militare, ma nella realtà esprimono molta meno potenza. Se dovessero fronteggiare in prima battuta i circa 300.000 soldati russi oggi schierati in Ucraina, i maggiori paesi europei oggi potrebbero sostenere una prima linea terrestre di circa 177.000 unità; potrebbero reggere un fronte in difensiva. In teoria, perché un ipotetico esercito europeo somiglierebbe a quello ucraino; probabilmente eroico, ma impacciato da un sostegno logistico diabolico. L’esercito statunitense è l’asse della credibilità NATO perché è anche logisticamente omogeneo ed ha dietro un apparato industriale coerente: l’US Army ha un tipo di carro armato in servizio, non almeno cinque come i paesi europei.

Dunque, se si cita superficialmente la guerra in corso (e sino al 2025 non si tiene in conto quella israelo-palestinese a Gaza), manca una parte importante della valutazione comune della minaccia. Il resto parla di problemi reali, ma presentati come nuovi (molti precedono il 1989), giustapposti e privi anche di una chiara visione su terrorismo e attori non statali, su cui invece il pilastro Giustizia ed Interni della UE ha una valutazione piuttosto rodata, ma non integrata nella Bussola. Quando manca una direzione politica chiara, è ovvio che si arriva a dei truismi burocratici, che non possono esprimere visioni ed interessi strategici.

Le capacità ricercate discendono da un lato dalla valutazione collettiva della minaccia, ma ancor più dagli accadimenti reali nel mondo. Da come agiscono in concreto, evidentemente i governi europei credono ancora di avere il tempo per evolvere a piccoli passi da una capacità di moderato peacekeeping ad un contributo credibile per la deterrenza e la difesa del Vecchio Continente. Nel 2001 l’Helsinki Headline Goal prevedeva una forza d’intervento rapido di 60.000 soldati, i successivi gruppi tattici del 2007 (EU battlegroup) contavano nominalmente 27.000 unità; oggi si parla di una European Union Rapid Deployment Capacity di 5.000 unità, comprese forze terrestri, navali ed aree, estratte dagli esistenti gruppi tattici. Ad oggi non un solo gruppo tattico è stato dispiegato, nemmeno simbolicamente.

Su queste premesse concrete, poche scelte essenziali possono essere fatte. Prima, aggiornare subito la Bussola Strategica insieme ad una valutazione della minaccia che sia realistica. Seconda, sviluppare un pilastro di difesa e sicurezza europeo, collaborando costruttivamente con la NATO. Lungi dall’essere una scelta subalterna, essa offre tre cose: mantenere il più a lungo possibile una garanzia di sicurezza per l’Europa che dura da tre quarti di secolo; essere un efficace incubatore di grandi programmi d’armamento in comune (come già avvenuto per Tornado ed Eurofighter); gestire in modo politicamente utile la questione strategica dell’Indo-Pacifico. Terza, standardizzare gli armamenti europei rafforzando l’esistente interoperabilità, base per qualunque seria autonomia. Questo non significa precludersi acquisti e collaborazioni transatlantiche, significa al contrario facilitarle tra entità più omogenee. Quarta, creare un vero collegio militare europeo, a modello ed in collaborazione con quanto avviene nell’Alleanza, in modo da creare l’interoperabilità tra culture militari ancora assai diverse tra loro. Allora l’autonomia diventa un risultato condiviso reale, non un obbiettivo antagonistico declaratorio.

Questo è tanto più importante se non si fa gli struzzi con le imminenti elezioni americane nel novembre 2024. Si celebreranno i 75 anni della NATO in luglio e sarebbe utile fare una simulazione politica euroatlantica informale nel caso qualunque prossima presidenza prendesse decisioni sgradevoli. Che fare se Washington decide di continuare ad anemizzare l’Alleanza, facendole mancare una seria guida politica? E se invece Trump vestisse i panni di De Gaulle e si ritirasse dalla struttura militare integrata della NATO e mantenesse giusto un presidio politico? Ché saetta previsa vien più lenta.

Direttore NATO Defense College Foundation

Alessandro Politi