La Turchia chiede di entrare a far parte dei BRICS pur restando saldamente ancorata alla NATO. Erdogan manda messaggi graditi da Kiev ma punta a rafforzare le relazioni con la Russia
Come in un binocolo rovesciato, le principali notizie internazionali a volte eludono il grandangolo su sviluppi politici che potrebbero rivelarsi straordinari. È il caso della recentissima decisione della Turchia di chiedere l’adesione all’alleanza BRICS. Un passo importante, se si considera che la Turchia è membro della NATO, il secondo più forte esercito dell’Alleanza, l’unico a maggioranza musulmana. Nel club dei BRICS, Ankara si avvicina a Paesi – Cina, Russia, India, Sud Africa, Brasile, Iran – non propriamente amici dell’Occidente. Va detto che le relazioni diplomatiche e commerciali sono più complesse e non delineano una divisione netta per blocchi contrapposti. Tuttavia, il modello BRICS tende ad allargarsi, pretende di rappresentare un contrappeso alle alleanze occidentali e prefigura un sistema monetario alternativo al dollaro. Le conseguenze geostrategiche sono ancora in divenire, quelle politiche potrebbero già pesare.
Ankara ambisce a un ruolo più decisivo nel Mediterraneo e in Medio Oriente e a porsi come fattore di equilibrio nel conflitto Usa/Russia esploso sul campo di battaglia ucraino. Non è un caso che negli stessi giorni in cui si perfezionava l’adesione ai BRICS, il presidente Erdogan abbia detto chiaramente che la Russia dovrebbe restituire all’Ucraina la Crimea, in forza del diritto internazionale. Quasi uno schiaffo a Mosca, anche se Erdogan incontrerà Putin al prossimo vertice dei BRICS in programma il 22 ottobre, a Kazan, sotto la presidenza russa. Dichiarazione a cui il presidente turco ne ha fatta seguire un’altra di segno opposto, pochi giorni dopo, intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu, con la quale ha chiesto di fermare la fornitura di armi all’Ucraina e di riprendere il dialogo con Mosca.
Mosse in apparenza contraddittorie che tuttavia rivelano una strategia: la Turchia, media potenza con nostalgie imperiali, gioca a tutto campo, difende i propri interessi regionali – in Siria come nei Dardanelli -, non s’inchina a Washington e non è intenzionata ad aspettare in eterno segnali d’accoglienza dall’Europa. D’altra parte, non ha nessuna intenzione di creare fratture nelle relazioni commerciali con la UE (200 miliardi di interscambio) né di mettere in discussione l’appartenenza alla NATO. L’avvicinamento ai BRICS conferma invece la frustrazione per decenni di attesa nell’ anticamera della UE e una più esplicita autonomia rispetto all’Alleanza. Ad esempio con una certa disinvoltura mercantile per contratti di vendita e acquisto di droni, aerei e armamenti. Erdogan definisce un successo strategico l’avere un piede in diversi campi, anche se questo atteggiamento potrebbe creare imbarazzo e apprensione in un ambito in cui si scambiano idee e segreti su strategie militari e conflitti in corso.
Il blocco dei BRICS è stato a lungo considerato poco più che un raggruppamento di Paesi a volte in disaccordo e persino antagonisti. Ma 15 anni dopo il gruppo è quasi raddoppiato, includendo Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Con l’Arabia Saudita orientata ad aderire. Oltre alla Turchia, una ventina di Paesi hanno già presentato domanda. Nel frattempo, cresce anche l’adesione alla Nuova Banca di Sviluppo (NDB) che ha sede a Shangai, alternativa alla Banca Mondiale e al FMI. È un fatto che la maggioranza di questi Paesi non approva l’operazione russa in Ucraina, ma nemmeno sostiene le sanzioni, le mozioni di condanna di Mosca all’ONU, la politica Usa in Medio Oriente, la rappresaglia d’Israele a Gaza. E, indirettamente, l’allargamento dei BRICS conferma quanto il conflitto in Ucraina sia sempre più divisivo degli equilibri mondiali. Le condanne e le sanzioni contro la Russia hanno determinato un avvicinamento di Mosca a Pechino e a Teheran.
La Storia definirà nuovi equilibri mondiali. Certo è che le cose sono cambiate nello spazio di una generazione dopo caduta del Muro di Berlino. Abbiamo raccontato la fine della guerra fredda, le speranze della globalizzazione, l’iperpotenza americana, lo scontro di civiltà e ora una rivalità fra alleanze che poco assomiglia all’ideale del multilateralismo. Nel grande gioco geostrategico – si pensi soprattutto alle rotte commerciali e ai corridoi energetici – stanno cambiando le regole. Nuovi e forti protagonisti intendono giocare la partita ad armi pari. Anche il dollaro rischia di farne le spese, nonostante fra i nuovi membri BRICS, in Medio Oriente e Nord Africa, ci siano anche tradizionali alleati di Washington. Arabia Saudita, Iran ed Emirati Arabi Uniti, insieme a Russia e Brasile sono i maggiori produttori di energia. Complessivamente, i BRICS rappresentano il 29 per cento del PIL globale, secondo i dati del Fondo Monetario, e il 46 per cento della popolazione mondiale.
In questo quadro, la cooperazione USA/Europa dovrebbe essere rafforzata anziché indebolita, come si prevede a Washington per il dopo elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti hanno trenta alleati in Europa contro sei nell’Indo-Pacifico. Gli alleati europei detengono due dei cinque seggi permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e una quota maggiore dei membri nelle organizzazioni più importanti del mondo, rispetto a qualsiasi altra regione. Gli Stati Uniti non possono permettersi di rinunciare all’Europa. Ma i BRICS incalzano.